ℂ𝕒𝕡𝕚𝕥𝕠𝕝𝕠 𝕕𝕦𝕖

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HINATA

Stavo impazzendo.

Non riuscivo a percepire il mio respiro infrangersi sulla pelle della mia mano, anche se sentivo l’aria passare per le narici. Ero vestito con un grosso camice bianco, con dei piccoli fiorellini verde scuro, che occupavano ogni più piccolo spazio di cotone. Le mie labbra erano serrate, non riuscivo nemmeno a prendere un bel respiro profondo, anche avendone un urgente bisogno. Gli occhi spalancati, ricolmi di lacrime, chiedevano aiuto in una lingua silenziosa, come se stessi per soffocare nelle mie stesse emozioni.

I miei occhi, però, non contenevano solo lacrime che si limitavano ad accennare ad uscire. I miei occhi contenevano anche il riflesso di quello che era il nulla assoluto, una stanza completamente nera e infinita. Sembrava il cielo notturno, ma le stelle e la luna avevano così tanto timore di quel posto, che erano scappate per nascondersi, abbandonandomi al buio della solitudine. Ma, per qualche motivo, il mio corpo sembrava essere l’unica fonte di luce presente. La mia pelle brillava, ma non emetteva luce, era molto in risalto. Riuscivo a distinguere braccia, gambe, piedi, dita, e anche i pugni stretti su cui mi sfogavo in quel momento.

Volevo urlare, volevo correre, ma volevo anche rimanere lì, fermo, ad aspettare, nell’inutile speranza che qualcuno mi salvi da quella scura tortura mentale. Mi sentivo esposto, troppo. Sentivo degli occhi invisibili puntati su di me, quasi pupille feline. Volevo aiuto, volevo andarmene.

Abbassai le palpebre lentamente, in un movimento dolce e fintamente tranquillo, dando vita a piccole sorgenti salate, che percorrevano un sentiero tracciato da loro stesse sulle mie guance. Abbassando le palpebre, diedi il via anche ad una serie di respiri profondi, come se a queste fosse legato un qualcosa che ostruiva il flusso d’aria nelle narici. Inspiravo dal naso, ed espiravo dalla bocca. Ripetei questa sequenza per quelle che sembravano quasi ore, e quando sentii finalmente i pugni rilassarsi e le dita che in un movimento leggero si distendevano, aprii gli occhi.

Presi un ultimo respiro a pieni polmoni, e cominciai a camminare.

Un passo. Il pavimento era come ricoperto da uno strato d’acqua. Quando poggiai il piede destro per terra, piccole onde generate dal contatto improvviso abbandonarono il loro punto d’origine, disperdendosi dopo qualche centimetro, nella vasta distesa liquida.
Continuai a camminare, nella speranza di vedere anche la minima fonte di luce, il minimo segno di qualsiasi cosa, vivente e non. Mentre continuavo il mio infinito tragitto, mi concentravo sul rumore rilassante dell’acqua.

Non volevo pensare ad altro, avevo troppa paura per pensare di aver abbandonato la mia famiglia, Tobio…o di essere morto.

Dopotutto, non c’era altra spiegazione. In un secondo, pensando a questa realtà dei fatti, mi passarono per la mente tutti i ricordi più belli che il mio cervello conservava. La nascita della mia sorellina, l’arresto di mio padre, il mio primo bacio, dato a Tobio…questi ricordi vennero a bussare alle mie iridi, e nel mio tentativo di respingerle, loro presero possesso della mia vista, e soprattutto delle mie emozioni.

In un flash bianco, come se un fulmine avesse avvolto il mio corpo, ritornai in quel buco nero. Mi fermai, non riuscivo a muovere un solo muscolo, chiunque in quel momento avrebbe potuto scambiarmi per un soldatino. Il problema era che non c’era nessuno tranne me. Ero solo, solo con il mio battito cardiaco e le ombre nascoste.

O almeno, così pensavo.

Un dito picchiettò sulla mia spalla per attirare la mia attenzione, facendomi rabbrividire. La cosa che mi fece più paura, però, è che non avevo sentito nessun spostamento dell’acqua, come avrebbe dovuto essere in un contesto normale. Non avevo sentito nessun passo, e non avevo nemmeno percepito la sua presenza.

|𝐖𝐚𝐫𝐦 𝐓𝐨𝐮𝐜𝐡| - 𝙺𝚊𝚐𝚎𝚑𝚒𝚗𝚊Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora