CAPITOLO#5

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Linea d'orizzonte, vertici

i punti piani e gli spazi

paralleli, pendii

abitudini inutili

pressioni, altitudini

inizia la fine

tutte le cose si incontrano qui

(Dente, Sulla Luna Su Torino)

Salgo a casa per mettere giù i libri e le dieci rampe di scale stavolta quasi mi ammazzano. Mi sento come Robert Redford in A piedi nudi nel parco quando raggiunge per la prima volta la novella sposa nel loro infame appartamentino al quinto piano di un palazzo del Greenwich Village.

Solo che al posto della ginnica quanto euforica Jane Fonda, io vengo accolta da uno sbadiglio di Sabrina di proporzioni cosmiche. Boccheggio tentando di prendere fiato per salutarla.

Probabilmente solo chi ha scalato l'Everest prova la stessa sensazione di rarefazione dell'aria che si raggiunge al pianerottolo tra il terzo e il quarto piano, ovvero alla settima rampa di scale, quando ti illudi di essere quasi in cima ma ti rendi conto che non è così e che altri trentadue gradini ti separano dalla meta. Se poi si è zavorrati da circa dodici chili di volumi rilegati, il tutto viene peggiorato dai goccioloni di sudore che ti colano lungo le scapole, stridendo odiosamente contro il freddo autunnale.

Lascio cadere per terra lo zaino e mi butto a peso morto sul divano-letto gibboso. Resto così finché frequenza cardiaca e ritmo respiratorio non rientrano nei valori normali. Nel frattempo Sabri ha messo su un vinile di Dente e Brunori Sas.

Quando torno giù, Joe sta fumando appoggiato a un lampione e si guarda intorno con una nonchalance invidiabile. Sembra che stia prendendo appunti, tanto i suoi occhi osservano con attenzione ciò che lo circonda.

Quando arriviamo sul lungo Po, il luccichio verde del fiume si spalanca di colpo tra le fronde rossastre degli alberi e il giallo delle chiome sull'altra riva. È uno spettacolo da mozzare il fiato.

Mi soffermo anche stavolta a contemplare i locali chiusi dei Murazzi, ormai simulacri fatiscenti, turbini di volantini con le scritte sbiadite dall'umidità. Posti semi cadenti con gli alti portoni in legno scardinati per metà, tenuti insieme sul davanti da spesse catene non sufficienti a tenerli serrati. Guardo attraverso la fessura tra le ante del portone del locale che si chiamava Puddhu Bar e mi intristisco pensando a tutte le sere che ci ho passato. Sere belle e meno belle, ma sempre affollate e la gente mi piaceva. Mi sembravano tutti spensierati e capaci di divertirsi. Invece adesso ci siamo soltanto io e Joe e accanto a noi il fiume scorre impassibile.

Sembra una metafora decadente dell'esistenza, dei sogni giovanili abbandonati, mentre il tempo continua a passare inesorabile.

Accoglienti alveoli pieni di gente e rumore si trasformano in stomaci sventrati ed esoscheletri vuoti. Locali fluviali pieni di vita e assuefazione ridotti allo sfacelo dall'abbandono. Proprio come i sogni di grandezza e i sentimenti di invincibilità degli adolescenti.

Quanto ho creduto a quei sogni folli, che altro non erano che desideri di felicità nuda e cruda.

Si può desiderare la felicità punto e basta?

O bisogna per forza figurarsene una specifica? Che so, una carriera, un premio Pulitzer o Nobel, la pace nel mondo...

Bè, io desideravo solo essere felice e sinceramente non mi importava come.

Poi, a suon di sberle, mi sono svegliata.

«Buongiorno Principessa!» mi ha detto la caricatura di Roberto Benigni partorita dalla mia testa. E così, stiracchiandomi per bene, mi sono data una mossa.

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