Il libro

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Le ultime luci di una calda sera di giugno andavano affievolendosi.
Era stata una dura giornata, quella: il mercato era stato incredibilmente affollato quella mattina, e l'ordine di tutte le commissioni che Anna avrebbe dovuto svolgere quel giorno era stato stravolto.
Era piccola, Anna, ma sorprendentemente ben organizzata.
Così successe che il suo piccolo guadagno quotidiano quel giorno era venuto a mancare, poiché non aveva avuto tempo di fare le sue solite vendite porta a porta.
Avrebbe tanto voluto adempiere al suo personale dovere, ché era calata la sera e c'era una tale frescura e certi colori in cielo...
Ma la sera non si doveva uscire mai, questo era tassativo, perché “brutti ceffi girano per le strade, la sera”, sua madre ripeteva, “immagina un po' quel che farebbero a una come te!”.
In realtà non immaginava proprio nulla, Anna, che tutti conoscevano, e tutti le volevano bene: insomma, era pur sempre lei che portava loro da mangiare, ben due volte la settimana, e quelle cose lei le coltivava personalmente. Questo pensava Anna, che non chiedeva mai spiegazioni, perché non ne avrebbe ricevute, ed anzi l'avrebbero presa per sciocca perché avrebbe dovuto già saperle.
Comunque, visto che non avrebbe venduto proprio un bel niente quella sera, cercò di non venire meno anche alla sua sessione di lettura.
Sua cugina le aveva portato sottobanco un nuovo libro, «L'amore ai tempi del colera».
"D'amore", le disse tutta entusiasta la cugina, poco più che dodicenne "É di amore che parla!".
"Non l'avrei mai detto", Anna le rispose.
Mentre sua cugina era tremendamente curiosa di fare esperienza dell'amore, e di tutto quello che comportava (il primo appuntamento, il primo bacio, un futuro matrimonio) Anna ne sapeva pressappoco niente, e il bello era che non nutriva tutto questo gran interesse per cambiare le cose.
Forse aveva avuto qualche "sbandamento" (come l'avrebbe definito sua madre) per qualcuno, una volta, per un lustrascarpe fuori la vetrina di un negozio d'abbigliamento. Anna lo considerava un bel ragazzo, ma forse non bastava per definirsi amore.

Prese il libro tra le mani, ne sfogliò le vecchie pagine, ispirandone l'odore.
La prima frase recitava:
"Era inevitabile: l'odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati".
Anna pensò subito al suo mandorlo, proprio vicino al pesco e l'albicocco, e quasi riuscì a sentire il profumo dei suoi fiori in primavera.
Decise che il libro le piaceva, perché le evocava cose che possedeva, o di cui aveva sentito parlare, o che aveva visto da qualche parte.
Cominciò a portare il libro ovunque con sé.
Qualche tempo dopo Anna stabilì che quando avrebbe potuto avrebbe portato il libro con sé in spiaggia e avrebbe letto all'ombra di un pino, magari con un cestino di arance vicino, in caso le fosse venuta fame, e magari vicino quella villetta tanto lontana dalla realtà.

Fu così che si accorse che a dir la verità c'era segno dei misteriosi possessori di quella villetta anche al suo esterno: la spiaggia veniva quotidianamente utilizzata da due individui, padre e figlio probabilmente, vista l'evidente età matura dell'uno e la tenera età dell'altro, tenera forse quanto Anna, o poco più.
Giocavano sempre a racchette o semplicemente prendevano il sole.
Il padre era tanto calvo quanto il figlio era un'esplosione di riccioli biondi. Se l'uno era massiccio, l'altro era esile e veloce.
I due sembravano non notare la presenza di Anna, quando accadeva che avesse tempo per venire, così credette di non disturbare nessuno quando leggeva all'ombra del suo adorato pino, con il suo cestino di arance al fianco.
Era quasi come se fosse inesistente per la maggior parte del tempo: mai una volta un'occhiata da parte dei due.
Così fu non poco sorpresa quando si sentì chiamare da lontano, un tardo pomeriggio.
"Sì, tu!", continuò la voce, perché Anna si guardava attorno pensando di aver sentito male: le onde del mare assalivano la voce del ragazzino che la chiamava.
"Che hai lí?" Questa volta il ragazzo si era avvicinato un po', Anna vide che posava lo sguardo sul cestino.
"Sono solo delle arance". Anna inclinò quella sua testa bionda da un lato, come non comprendendo.
Garbatamente, il ragazzo le chiese se potesse favorirne.
Anna assentì di buon grado, perché aveva ormai capito da tempo che il ragazzo sicuramente doveva essere figlio di una famiglia altolocata, magari di grandi proprietari terrieri, o magari possedevano un cinematografo, oppure producevano loro stessi dei film, e la gentilezza dei suoi modi l'avevano sorpresa perché, essendo lei nientemeno che una semplice contadina, non era abituata a sentirsi rivolgere in certe maniere.
Anna lo guardò mangiare l'arancia, senza nulla da dire. Quasi non lo voleva interrompere, in realtà, tanto sembrava godersi il suo spuntino.
"Sono tue queste arance?"
"Del mio frutteto, sì"
"Dovrò farle assaggiare a mio padre un giorno o l'altro. Sono sublimi. Le vendi? Perché non le porti nella nostra tenuta, una volta? I nostri contadini non ce ne portano di così buone, davvero".
Anna vide, alla luce del sole, che aveva gli occhi più verdi che avesse mai visto. Erano talmente vivi che si meravigliò di non averli visti anche a distanza, su quella pelle così bronzea; quella sua pelle di salsedine che faceva risaltare anche i capelli, ed anche i denti, che sembravano di perla, tanto erano bianchi.
Rimase tanto compiaciuta dal fatto che le sue arance fossero migliori di quelle dei suoi fornitori che non ci dormì, quella notte.
Mentre si rigirava nel letto Anna pensò che non gli aveva nemmeno chiesto come si chiamava. E poi pensò che avrebbe dovuto preparare al più presto la cesta da portargli, e pensò anche che avrebbe dovuto preparare un buon vestito da mettere, e poi il turbinio dei suoi pensieri si bloccò, di colpo: perché mai avrebbe dovuto scegliere un vestito in particolare, per vendere della semplice frutta?

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