Il cuore di Bianca - 3

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Ho problemi di cuore dal primo anno del liceo.

E no, non si tratta di una cotta non corrisposta.

È cominciato tutto durante un allenamento di Judo. Stavamo facendo alcuni giri di corsa della palestra, per riscaldarci.

Avevo il fiatone, ma ho pensato che fosse normale. Ero decisamente fuori forma: in fondo, passavo la maggior parte delle mie giornate con il culo su una sedia. Al banco, durante le lezioni. E alla scrivania, al pomeriggio. Compiti, compiti, compiti. Le superiori erano appena cominciate e ci stavano già sommergendo.

Mio padre era più agitato di me. Insegnava matematica nella stessa scuola, anche se in un'altra sezione. Ogni dieci minuti si affacciava alla mia camera con le scuse più assurde, per controllare che tutto andasse bene e che non avessi bisogno di aiuto.

Ogni volta che il suo viso compariva, gli rispondevo di sì e di no. Cavolo, avevo quattordici anni: potevo fare i miei dannati compiti da sola.

Lui non approvava molto l'uso di quel linguaggio. Forse lo considerava troppo volgare, oppure troppo arcaico per una quattordicenne. Colpa dei libri, credo. Ne ho sempre avuta la camera piena.

Leggevo tanto.

Prima.

Poi arrivò il Giorno dell'Allenamento di Judo. Mi piaceva, anche se non ero un gran che. Però, ehi, chissenefrega, a me piaceva lo stesso! Dove sta scritto, che deve piacerti solo quello che sai fare alla perfezione? Adoro anche giocare a Mario Kart, eppure arrivo sempre ultima.

In ogni caso, quel giorno stavo correndo lungo le linee laterali sul perimetro della palestra insieme a tutti gli altri.

Avevo il fiatone. E sentivo qualcosa di strano vicino allo stomaco, come se avessi mangiato troppa cioccolata. Ma sapevo di non averne mangiata, quel giorno.

Continuai a correre, finché, di botto, tutto intorno a me divenne nero. I suoni si allontanarono. Il pavimento si avvicinò.

Svenni.

Quando ripresi conoscenza, c'erano degli estranei in divise arancione fosforescente chinati su di me. Mi sollevarono di peso e mi deposero su un lettino, che venne spinto dentro un'ambulanza.

Poco dopo, un grande ospedale.

A questo punto, cominciavo a essere vagamente preoccupata. Ero circondata da persone che non conoscevo, e non avevo la minima idea di cosa stesse succedendo. Con orrore, mi accorsi che la maglietta era sollevata e che il mio torace era esposto ai quattro venti e ricoperto di dischi di carta collegati a un apparecchio che emetteva uno strano bip irregolare.

Dovevo aspettarmi che qualcuno mi bombardasse di corrente elettrica urlando «Libera!» o che qualcun altro gridasse con aria drammatica «La stiamo perdendo!»?

Cercai di tirarmi a sedere sul lettino, mentre percorrevamo le corsie dell'ospedale.

Non sapevo nemmeno come fosse davvero, l'interno di un ospedale. A quanto ne sapevo, c'ero stata solo quando ero nata.

«Abbiamo chiamato il tuo papà» disse qualcuno.

Era una donna, capelli grigi tagliati cortissimi, occhi pungenti che mi analizzavano.

«Sono la dottoressa Maria Keller e dobbiamo farti alcuni esami.»

L'unica cosa che riuscii a dire fu: «Voglio il mio avvocato».

Ovviamente, non arrivò nessun avvocato.

Solo mio padre.

La mamma non c'era, era come sempre a migliaia di metri di altezza, a servire cocktail su qualche aereo di linea per ricconi.

Ma, ovviamente, quando hai quattordici anni, tuo padre è meglio di qualsiasi avvocato sul pianeta Terra. Mi tenne la mano per tutto il tempo in cui rimanemmo in ospedale. Il mio papà avrebbe rimesso tutto a posto, ne ero sicura.

E invece mi sbagliavo.

Qualche ora e molti esami dopo, la dottoressa Keller ci fece accomodare nel suo studio.

A quanto pareva, mi avevano "stabilizzata", e i miei "parametri vitali" erano a posto. In effetti, non avevo più male allo stomaco come se avessi fatto indigestione di cioccolato. A dirla tutta, ne avrei gradito volentieri un pezzo, in quel momento. Secondo il professor Lupin, di Harry Potter, il cioccolato scaccia la paura e io credo che abbia ragione.

Non ricordo molto, di quell'incontro con la Keller, solo tre parole: cardiomiopatia dilatativa familiare.

Da quel giorno in poi, di familiare per me ci furono molte cose che prima non lo erano.

L'ospedale, la dottoressa Keller, gli infermieri.

Gli esami, gli elettrocardiogrammi (anche se a quei tempi non riuscivo ancora a pronunciare la parola senza che la lingua mi si attorcigliasse) e altre cose molto più fastidiose.

Come quando mi fecero respirare un gas soporifero e mi aprirono il torace per cercare di sistemare il mio cuore che non funzionava a dovere.

Successe molte volte, e ogni singola volta mio padre mi diceva che le cose andavano bene. Credo lo pensasse solo perché, nonostante tutto, ero ancora viva.

Ma sapevamo entrambi, come lo sapeva la dottoressa Keller, che le cose non andavano bene per niente.

Quel giorno ho imparato che il mio papà non avrebbe potuto salvarmi. Che non era in suo potere. Il mio mondo era crollato e forse anche il suo.

La mia malattia ce l'avevo dalla nascita, solo che non si era mai fatta vedere prima. Era come sapere di avere sempre avuto dentro una bomba a orologeria, che alla fine era esplosa portandosi via mezzo cuore.

Il mio muscolo cardiaco non lavorava a dovere, e bisognava fare qualcosa.

Così, finì che mi installarono quello che Takeru chiama cuore d'acciaio, e che io chiamo Poldo, come l'orsacchiotto che ho perso in prima elementare durante una gita in montagna. E che la dottoressa Keller invece chiama VAD. Un aggeggio che fa battere il mio cuore con il ritmo giusto.

Ripenso a tutto questo, oggi, mentre salgo in macchina con mio padre.

Oggi, che ho diciannove anni e sono ancora viva, con un aggeggio d'acciaio che batte al posto del mio cuore malandato.

Oggi, che io e mio padre andiamo all'ospedale.

Che novità, eh?

SPAZIO AUTRICE

Lettori e lettrici of my heart, come state? Spero tutto bene! Io qui continuo a scrivere follemente e vi mando un nuovo capitolo tutto per voi. 

Spero vi piaccia. Un abbraccio di carta dalla vostra amichevole scrittrice di quartiere!

Io al posto tuo - Voglio il tuo cuoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora