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Mi guardava con occhi pieni di speranza, come se, in qualche modo, sarebbe riuscito ad aiutarmi. Ero seduto sulla poltrona dello studio, sfuggivo
al suo sguardo, a cui non credevo affatto.
L'uomo di fronte a me ci sapeva fare con le parole, ma non era mai sta-
to sincero. Il mio era un caso particolare, lui non aveva mai affrontato nulla di simile nei suoi venticinque anni di carriera, ma si comportava come se
la terapia stesse procedendo bene, tutto secondo i suoi piani.
Leonardo Medina, uno psicoterapeuta della mutua assegnatomi al se-
guito di un incidente, si accorgeva a ogni seduta della malafede riposta in
lui, eppure non voleva darsi per vinto. Non era certo uno dei migliori spe-
cialisti di Madrid, ma non mi preoccupai per questo, neanche il più esperto
psicoterapeuta di quella dannata città avrebbe potuto trovare una risposta
a ciò che mi era capitato.
Puntavo il naso fisso sulla parete, una parete spoglia di un verde militare, che quasi mi infastidiva le retine.
«Signor Navarro?» esordì il dottore per stemperare il silenzio. «Tutto bene?»
Rimasi immobile a fissare il muro, ma avevo sentito benissimo. Ero
sopravvissuto a un incidente mortale. Finito in coma per qualche ora, ave-
vo sognato sedici anni della mia vita con una donna, con cui avevo avuto
due figli. Al risveglio tutto mi era stato tolto. Le uniche cose che avevo
conservato da quella notte erano una cicatrice sulla coscia e un filo rosso.
Sì, un filo rosso legato al mignolo della mia mano sinistra. Era un filo luminoso stretto al mio dito; mi risvegliai con quello addosso, ed ero l'unico
a poterlo vedere. Non sapevo ancora dove conducesse, sembrava non fini-
re mai, me lo portavo dietro senza infastidire i movimenti altrui. I dottori
smentirono la sua esistenza, e la collegarono all'eventualità di un trauma
cranico. Dopo un po' di tempo iniziai io stesso a ignorare la sua esistenza,
facendo finta di niente. Non ne parlai mai con nessuno, avevo capito che,
a parte me, nessuno avrebbe potuto vederlo.
Girai il collo verso il dottor Medina. «Secondo lei sto bene?»
Era una domanda retorica, lo psicoterapeuta lo capì subito. Portò il pugno chiuso alla bocca e mascherò l'imbarazzo con un colpo di tosse, ma
comprese il mio stato d'animo.
Dopo un anno di terapia non aveva ancora afferrato se quello che aveva davanti fosse un ragazzo di trentadue anni con l'animo di un padre di
famiglia o un ultraquarantenne rinchiuso nel corpo di un prestante ragazzo
dal taglio corto à la page, la barba curata e i fascinosi occhi verdi.
Dopo l'incidente ero rimasto steso un'ora su un manto gelido di asfalto,
e un'altra ora su un lettino ospedaliero, trasportato d'urgenza in ambulanza
verso l'ospedale Beata María Ana, una struttura aperta ventiquattr'ore su
ventiquattro.
In quell'ora avevo vissuto, in assenza di coscienza, una storia d'amore
intensa. Ero sposato, ma tutto a un tratto si era interrotto. Ricordo solo un  colpo di pistola e il corpo della mia donna che si accasciava al suolo. Non
avevo memoria del suo volto, non ricordavo il suo nome, eppure piangevo
per lei ogni fottuta notte, da un anno a questa parte.
Forse ero solo pazzo. Ero rimasto seduto su quella poltrona sperando
che quell'uomo sarebbe riuscito a farmi dimenticare due figli che non avevo mai avuto e una donna che non avevo mai conosciuto.
Il dottore posò lo sguardo sul calendario posizionato sul tavolino in mogano di fronte alle due poltrone. «Tra pochi giorni sarà il suo compleanno,
giusto?»
Su quel calendario erano segnati in modo disordinato gli avvenimenti
importanti del dottore, tra cui il mio compleanno. Ero diventato uno dei
suoi preferiti, ma solo perché il mio caso, se risolto, l'avrebbe reso famoso.
La sua grafia era incomprensibile, tra i suoi scarabocchi riconobbi solo il
mio nome segnato con un pennarello rosso. "Abel Navarro +33" era scritto nella casella del dieci di dicembre.
«Sarà passato un anno dall'incidente», risposi.
L'ultimo fu il compleanno più brutto della mia vita. Non per il fatto
che lo passai all'ospedale. Avevo la testa compressa da un macigno. Ero
un ultraquarantenne grasso e stempiato, e di colpo mi ritrovai ad aver  compiuto trentadue anni in una sala operatoria. Avevo riacquistato il mio
fisico asciutto e atletico dovuto alla passione per il nuoto, che da sempre
mi aiutava a sgomberare la mente e a tonificare i muscoli, ma sentivo che
mancava qualcosa: ero tornato alla triste realtà.
Avevo perso una famiglia, l'unica che avessi avuto. Mia madre quella
notte non venne a trovarmi nemmeno in ospedale, la rividi tre giorni dopo, quando i medici decisero di dimettermi.
Il dottor Medina cercò di sdrammatizzare. «Come pensa di festeggiare?»
Stavo pensando di tornare sul luogo dell'incidente, l'incrocio sulla Calle
de Gaztambide, ma di certo non potevo dirglielo, avrebbe provato di nuovo a sviare l'argomento.
«Festeggerò con amici.»
Continuava a guardarmi per scrutarmi nell'animo. Si credeva una macchina della verità, pensava di essere bravo in quello che faceva. Magari lo
era, ma con me non aveva speranze. I suoi occhiali con le lenti circolari
rendevano enormi i suoi occhi marroni, e la montatura di un magenta acceso era come un sipario che anticipava la vista di una orribile cravatta a righe dalle tinte variegate. Il verde e il rosso erano i colori che si sovrapponevano su quel variopinto accessorio che portava al collo. A salvare l'abbigliamento dell'uomo, però, c'era un completo grigio molto elegante, che lasciava trasparire il suo cattivo gusto in fatto di abbigliamento.
«Dove stava pensando di festeggiare?» mi domandò.
Mi passai una mano tra i capelli. «Non ho ancora deciso.»
Lo psicoterapeuta allungò il braccio sul tavolo. Voleva afferrare il suo
block notes, che gli avvicinai, in quanto sporgeva dal tavolo in direzione
del mio ginocchio. Lo prese, afferrando la copertina flessibile in cartoncino, e si rimise dritto sulla schiena.
Le domande di routine erano finite. All'inizio della seduta mi intratteneva ogni volta con una conversazione disinteressata, ma quando prendeva in mano il taccuino aveva un solo compito: estrapolare informazioni dal
mio subconscio, informazioni che io stesso ignoravo di avere.
L'analisi stava per iniziare, ma nel corso della terapia avevo imparato a tenerlo a bada. Quando non avevo voglia di rispondere alla sfilza di domande
del dottore, mi limitavo a dargli quello che voleva alla prima domanda.
Il modus operandi era sempre lo stesso. Iniziava ad appuntare qualcosa
dopo un paio di domande, a volte tre, ma quando arrivava la risposta che
cercava la sottolineava due volte. Di solito arrivava alla quinta, e diventava l'argomento principale della seduta successiva. Non ero io a pagare quegli
incontri, e a lui, come alla maggior parte dei suoi colleghi, non dispiaceva
prolungare la terapia.
Il dottor Medina estrasse una penna nera dalla tasca interna della giacca,
mostrando le altre due conservate all'interno, una rossa e una blu. Erano trasparenti con il tappo colorato dal rispettivo colore, il tubo di inchiostro era ben visibile e tutte le penne sembravano piene fino all'orlo, erano nuove.
Si sistemò gli occhiali e fissò il taccuino. «Mi racconti, signor Navarro,
le è capitato qualcosa di bello questa settimana?»
Avevo un rospo in gola che non vedeva l'ora di saltare fuori. Quella settimana qualcosa in me era rinato. Avevo voglia di dirlo a qualcuno, anche se nessuno avrebbe mai condiviso con me quel momento, nessuno avrebbe mai capito l'importanza di quell'evento, a maggior ragione il dottor Medina. Ciò che stavo per dirgli era l'ultima cosa che avrebbe voluto sentire in quella stanza, poiché andava contro tutto il lavoro fatto da lui fino a quel momento, e avrebbe potuto disintegrare i progressi fatti nel corso
della terapia. Progressi che, ripensandoci, non erano ancora arrivati.
«L'ho… l'ho vista», balbettai. «Ho visto quella donna, ieri.»
Il dottore aggrottò la fronte. «Mi ha sempre detto di non ricordare l'aspetto di sua moglie, se non erro.»
«È così, ma...»
Mi interruppi. Non sapevo spiegare a parole quello che avevo provato.
Non avevo avuto l'impressione di conoscerla, ma avevo percepito il nostro legame. Quando incrociai il suo sguardo lo riconobbi subito. Era lo stesso che ritrovavo ogni mattina tra le limpide lenzuola color vaniglia di casa nostra.
Mi chiamava amore, identificava in me l'amore, ma in quel momento
non mi aveva neanche riconosciuto, non aveva la minima idea di chi fossi.
Ma ero sicuro fosse lei, perché al suo mignolo sinistro era legato l'altro
capo del filo rosso. Quel filo ci univa, anche se non ci eravamo mai visti
prima in vita nostra. Doveva essere lei, doveva essere mia moglie. Di certo, però, non avrei potuto dare questa motivazione a nessuno, chi avrebbe
mai creduto a quello che tutti già percepivano come il mio delirio?
Il dottor Medina iniziò a fare strani versi schioccando la lingua sul palato, e fece un lungo sospiro.
«E l'uomo armato, invece?» domandò. «Ha visto anche lui?»
Lo stava facendo di nuovo, voleva a tutti i costi sminuire le mie sensazioni, ma non aveva tutti i torti, l'ultima volta che vidi mia moglie, quell'uomo era lì.


Il filo dell'eterno ritorno (Estratto)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora