Barcollava, ubriaco, tra le strade della città parzialmente illuminata dalla scarsa luce artificiale, giallognola. Aveva ancora una bottiglia di vino in mano, e si reggeva alla sua fidanzata, brilla almeno quanto lui. Lo seguivano quattro o cinque amici, suoi colleghi di lavoro, che lo riprendevano con le loro fotocamere, rendendo indelebile il ricordo di quell'uomo apparentemente sempre così ligio al lavoro che finalmente, dopo due anni, aveva ricevuto una promozione.
Emre Kaya aveva definitivamente sepolto il passato, ed era pronto a ricominciare la sua vita, al fianco di quella donna che, di lui, conosceva solo la superficie. E desiderava che restasse così.
Pensò di delirare, quando avvertì in lontananza un canto lento, straziante. Osservò a fatica l'orologio, constatando che fossero le tre di notte. Scosse la testa, ingoiò un rigurgito, ma la voce si faceva sempre più insistente, assordante.
Mi ricordo quando noi
Eravamo due bambini
E puntavamo le pistole dai cavalli a dondolo
-Chi diamine canta a quest'ora- biascicò Emre, aumentando improvvisamente il passo ed uscendo da quel vicolo umido e stretto, per poi scorgere in lontananza una figura piccola, sottile, cantare su delle scale di un palazzo vecchio e decadente con la chitarra tra le braccia.
Non riuscì a fermare Azra, la sua compagna, che corse verso quel canto, come se l'intera vicenda fosse divertente.
Ma non lo era, non per Emre, che quel canto lo conosceva bene.
Rimase in disparte, la testa che girava vorticosamente, mentre i suoi amici erano ai piedi di quella scalinata, ascoltando una melodia che non capivano, che li faceva sorridere.
La donna, l'artefice di quel canto, possedeva una chitarra fin troppo grande per la sua figura esile, ossuta. Azra si chiese, tra sè e sè, come potesse uscire quella voce da un corpo così distrutto, ferito.
Si guardò attorno per cercare il suo fidanzato, che era diventato improvvisamente pallido.
Bang bang, io sparo a te
Bang bang, tu spari a me
E vincerà chi al cuore colpirà
-Emre? Che succede?-
La voce di Azra era lontana, attenuata. C'era solo quel suono, quel canto.
Sollevò lo sguardo verso la cantante, la figura misteriosa nascosta dalla tenda di capelli neri, e deglutì a vuoto. Quest'ultima sembrò fare altrettanto, rivolgendolo verso di lui, e a quel punto il flusso di sangue entrò in deficit.
E svenne.Un'ora più tardi, Serkan Bolat era nella sua Porshe nera, una mano sotto il mento ed un'altra sul volante. Gli piaceva guidare nel silenzio e nella solitudine della notte, mentre Istanbul dormiva. Era l'unico momento della giornata in cui si considerava davvero in pace con sè stesso.
Aumentò il volume della radio, rilassò le spalle.
Stava tornando a casa dopo aver passato la notte, o almeno una parte, dalla sua fidanzata o ciò che doveva essere tale. Non capiva il senso di quella relazione, ma erano un uomo ed una donna troppo annoiati e coinvolti in un sistema sociale già predefinito per ribellarsi. Lei forse lo amava, ma lui... chissà. Si domandava spesso se ne fosse in grado, ma abbandonava prontamente la riflessione, dandosi dell'idiota e rimandando, esattamente come rimandava il matrimonio.
Aumentò ulteriormente il volume della radio, affichè la musica potesse offuscare la mente, e socchiuse per un secondo gli occhi.
Un secondo, eppure fu fatale.
Avvertì l'improvviso tonfo di un violento impatto, percepì l'auto sobbalzare appena, e il rumore di qualcosa che si rompeva. Frenò immediatamente, entrambe le mani che stringevano con forza il volante, le nocche ormai bianche.
Non ebbe il coraggio di guardare, di scendere dall'auto. Non sapeva se si fosse scontrato contro un animale o contro...
Scosse la testa, rifiutando l'idea, mentre una goccia di sudore scendeva lungo il collo.
Sulla strada asfaltata, frammenti di una chitarra ormai rotta.