Capitolo 1

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" Non so perché successe quel che successe e non so perché il destino fu così crudele con me, ma forse ciò che successe fu tutta colpa mia e non del destino. Mi chiamo Esther Davis e quando ascolterete questa cassetta, probabilmente, lei mi avrà già trovata e portata via con se; proprio come fece con tutti gli altri.
Non so, mio caro ascoltatore, come sei entrato in possesso di questa cassetta; ma se la stai ascoltando ti prego di seguire tutta la storia attentamente poiché potresti essere tu il prossimo che lei cercherà.
Forse, è meglio se ti metti comodo, la storia che sto per raccontarti non è breve e neanche allegra. Stai attento a ciò che succede attorno a te, diffida dei tuoi amici, della tua famiglia e persino dei tuoi stessi sensi; accertati di essere da solo quando ascolti la cassetta, preparati al peggio perché ciò che sto per dirti non è una falsità, è solo l'inizio della storia, ciò che avverrà in seguito dipende da te.
Come ho già anticipato, mi chiamo Esther Davis, vengo da Brooklyn, New York; vivevo con mio padre, Peter Davis, in un piccolo appartamento che si affacciava sul ponte di Manhattan. Mio padre era un brav'uomo, rispettabile e onesto, ammirato da tutti quanti; faceva parte della polizia ed era, per questo, spesso fuori casa; mia madre era un'anno più piccola di lui e una donna molto bella, gentile e cortese; veniva da Medellín, Colombia. La Colombia non era un luogo sicuro a quei tempi a causa del traffico di cocaina; intorno al 1976 si trasferì a New York con la sua famiglia e conobbe mio padre nei corridoio di scuola. Diventarono molto legati e si misero insieme dopo poco. Due anni di relazione e mia madre rimase incinta di me, erano giovani ma sicuri della vita che volevano avere; volevano una famiglia tutta loro, volevano dei bambini. Così io nacqui nel 1979 e un'anno dopo nacque anche mio fratello, William. Nel 1984, quando avevo 5 anni, ero in macchina con mia madre e mio fratello, stavamo andando a fare la spesa, quando fummo coinvolti in un maxi incidente. Mia madre morì sul colpo, mio fratello fu forse il più fortunato tra i tre, ebbe una commozione cerebrale, si ritrovò un braccio rotto e qualche taglio in faccia; io, invece, quella sera morì, quando ormai i medici avevano segnato l'ora del decesso, tornai a respirare. La cosa sconvolse tutti, il cervello può rimanere senza ossigeno per quasi 2 minuti ma io ero morta per quasi mezz'ora e mi ero risvegliata senza nessun danno. Era come se per me l'incidente non ci fosse mai stato e niente che non andasse nella funzionalità del mio corpo; ma da quella sera inizia a vedere e sentire cose strane. Quando mi alzai dal mio letto di ospedale, subito dopo essere resuscitata, sentì una strana sensazione, una sensazione che mi appesantiva, come se volesse farmi sprofondare nel sottosuolo; sentì un dolore al petto così forte da farmi urlare ma solo per qualche secondo, dopodiché non percepì più niente. I medici entrarono nella camera d'ospedale in cui mi trovavo e corsero dalla signora ricoverata vicino a me. La cosa strana era che la stessa signora sdraiata sul lettino, la vedevo in piedi vicino ai medici; poi una forte luce mi accecò gli occhi e la signora che era in piedi scomparve. Era morta, lo sapevo, e sapevo che quello che avevo visto era il suo fantasma.
Sentì qualcuno gridare nel corridoio dell'ospedale, era mio padre inginocchiato per terra; in tenuta da polizia con le lacrime che gli solcavano il viso. Corsi da lui e lo strinsi forte a me
<Papà, stai tranquillo> dissi cercando di consolarlo, ma cosa ne sapeva una bambina di 5 anni del dolore che si prova a prendere l'amore della propria vita? Non ne avevo la più pallida idea, ma io avevo perso la mia mamma, che non era tanto meglio.
<Mi avevano detto che eri morta anche tu...oh Esther, non posso perdere anche voi> disse piangendo ancora più forte.
<Papà, William ed io stiamo bene e anche la mamma> dissi guardando alle sue spalle
<Guarda è proprio lì> dissi indicando un punto imprecisato alle sue spalle.
Lui si girò senza vedere nessuno, ma io riuscivo a vederla, riuscivo a vederla piangere e la sentì gridare. Gridava tanto, gridava troppo forte, così tanto che che le mie orecchie iniziarono a sanguinare e sentii l'esigenza di coprirmele.
<Basta! Mamma smettila! Basta!> gridai cercando di farla smettere.
Non ricordo più niente di quella sera, ma forse è meglio così; per qualche mese sia io che mio fratello andammo da uno psicologo, avevano detto che ci avrebbe aiutati a elaborare ciò che era successo a nostra madre; ma la verità era che lei era sempre lì con noi, ovunque andassimo lei c'era sempre. La vedevo ogni notte, in un angolo della mia stanza, che mi fissava con i suoi occhi azzurri come il mare, come i miei.
La vedovo, la sentivo e ne avevo paura; non sapevo cosa volesse da me forse voleva dirmi qualcosa, ma non ci riusciva a causa della mascella spaccata. Col passare del tempo le forme del suo viso scomparvero, divennero come una tela bianca che aspetta di essere dipinta.
Tutti i tratti che la rendevano bella in vita erano scomparsi ed era rimasta solo un corpo; gli occhi, la bocca, il naso...era tutto scomparso, tranne i suoi capelli corvini, che le ricadevano lunghi sulle spalle.
Qualche anno dopo scomparve del tutto ma qualche volta, mi svegliavo nel mezzo della notte e la vedevo ancora lì, nello stesso identico punto, che mi fissava.
Iniziai a chiamarla ' Donna fantoccio' poiché mi sembrava una bambola e non ricordavo più chi fosse, non ricordavo che fosse mia mamma. Lo dissi a mio papà e anche al mio psicologo, ma pensarono fossero solo incubi causati dall'incidente.
Odiavo andare a scuola, odiavo tutti i miei compagni di classe e per questo spesso saltavo le lezioni, e me ne andavo in giro per Brooklyn; i miei coetanei erano stupidi e ignoranti, sapevano solo giudicare e non mi sembrava avessero un cervello. Non mi ero mai preoccupata di farmi degli amici, pensavo non mi servissero, e poi non mi consideravo una ragazza socievole o interessante; ma un giorno incontrai un ragazzo, era nuovo a scuola ed era di origini tailandesi. Sembrava un ragazzo tranquillo e tumido. Mi incaricarono di fargli fare il giro della scuola ma io non volevo restare a scuola quel giorno e decisi di scappare. Il nuovo arrivato decise di seguirmi e il resto della giornata gli feci il tour di qualche quartiere di Brooklyn.
La sera lo invitai a casa mia a cena, ma appena aperta la porta di casa ci trovammo davanti mio padre e i genitori di Ten, il nuovo arrivato mi aveva detto di chiamarlo così perché il suo nome era troppo lungo e complicato. Ci misero in punizione per un mese ma non lo consideravamo un problema noi, ci vedevamo ogni giorno a scuola e passavamo più tempo possibile insieme. Eravamo diventati inseparabili e da quando lo conoscevo, non saltavo più scuola, la mia media era migliorata e sembravo più felice.
Oh, quanto mi manca Ten, era il mio migliore amico e lo amavo con tutta me stessa. Era davvero unico, era timido ma aveva sempre la battuta pronta, mi prendeva in giro per la mia altezza e io facevo lo stesso con lui dato che era 1.70 m, gli pizzicavo la punta del naso, che era leggermente appuntito; gli tiravo su gli angoli della bocca, con le dita, quando non vedevo il suo sorriso luminoso. Condividevamo tutto, qualsiasi cosa la dividevamo, ci eravamo donati a vicenda il nostro cuore e non avremo più potuto riprendercelo.

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