Parte I - atto unico

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Era quasi mezzanotte quando il professor Lucio Tosti, fine accademico, e il suo allievo Max White uscirono dal Circolo Galilei. Stretti nei propri cappotti per il gran freddo, ma ancora confortati per l'effetto dell'ultimo cicchetto di rosolio, procedevano silenziosi, assorti in cupi pensieri.
La controversia che aveva tenuto banco quella sera era stata accesa, ma sconclusionata. Sebbene tutti i membri del Circolo fossero sempre stati concordi nel promuovere gli studi della propria comunità scientifica, al momento di dover riconoscere il merito di un singolo o di un gruppo di ricerca, i personalismi e lo scetticismo, come succedeva sempre più spesso, avevano preso il sopravvento.
Dopo la morte dell'illustre luminare della fisica Walter Orsiti e la deportazione in un lager nazista del suo più brillante allievo, le opinioni sul futuro della ricerca scientifica, all'interno del Circolo, si erano spaccate in due correnti di pensiero inconciliabili. Da una parte, si era creato un gruppo inespugnabile di fisici teorici che, dati gli esiti delle ultime scoperte, giustificavano la propria scelta purista con una propensione al pacifismo. Dall'altra, un gruppo di appassionati alle nuove tecnologie incoraggiava solo i tentativi si sdoganare dai laboratori le scoperte foriere di applicazioni pratiche, utili e immediate.
Tosti, benché formato nell'ambito della fisica teorica, non rinunciava alla sperimentazione, sia che fosse atta a dimostrare le teorie, sia che fosse funzionale al progresso e alla conquista di nuovi sistemi e modelli esistenziali, nella ferma convinzione che la pacifica convivenza tra gli uomini non dovesse derivare dalla indisponibilità delle armi, ma dalla diffusione della conoscenza delle leggi dell'universo. «Se si avesse contezza della profonda correlazione tra tutti gli elementi e i fenomeni, qualsiasi posizione faziosa scomparirebbe come d'incanto», era solito ripetere al suo allievo Max, ed era questa la causa a cui, con animo generoso, aveva dedicato tutta la propria esistenza.
Un paio d'anni prima, un amico astrofisico, nonché appassionato di arte, gli aveva regalato una fedele riproduzione de "La persistenza della memoria" di Salvador Dalì. E da allora non era passato giorno in cui, entrando nell'anticamera del suo laboratorio e osservando quell'opera, il professore non avesse rimarcato a se stesso o al suo allievo White l'importanza di considerare lo scorrere del tempo con uno sguardo rinnovato, da un punto di vista spirituale, etico, ma anche scientifico. «Il tempo non è quella variabile che finora abbiamo sempre immaginato, mio caro Max, ma la visione del mondo che questa presa di coscienza implicherebbe per tutti gli uomini, farà di questa evidenza la più difficile e terribile da accettare!», aveva detto pochi giorni prima al suo allievo. E quella sera, al Circolo, ne aveva avuto conferma.
A essere aspramente contestata, la sua ipotesi sulla coesistenza degli opposti possibili: «Considerato, miei cari signori, che il tempo non è quella semplice variabile lineare che ci siamo finora rappresentati, dobbiamo aprirci a una nuova concezione secondo cui si realizzano contemporaneamente tanti scenari avverabili, tanti mondi paralleli, e anche scenari opposti dove tutti noi siamo sia vivi, sia morti; sia saggi, sia folli; sia vincitori, sia vinti! Il cambiamento delle nostre rispettive posizioni individuali, per farla breve, non seguirebbe precipuamente lo scorrere del tempo, ma dipenderebbe da salti ontologici tra una dimensione e un'altra, assolutamente contemporanee». Quale appassionata requisitoria ne era seguita, rispetto a qualunque intento bellicoso tra gli uomini! Quale grossa minaccia avevano avvertito i suoi detrattori, da anni oramai abbarbicati ai privilegi acquisiti e affannati nella conquista del podio delle pubblicazioni e delle menzioni autorevoli!
«Immedesimazione, signori: spirito di immedesimazione. A questo ci richiama la relatività di Einstein, sul piano etico. Solo una umanità imprigionata nel vizioso rincorrersi di un prima e di un dopo, può darsi pena di ottenere delle conquiste... È una sfida al determinismo, comprendete? L'alternativa, quella per cui ci struggiamo noi stessi, dopo ciò che è stato fatto delle ultime scoperte della scienza, non è solo un'ipotesi nell'ambito di ciò che sarebbe potuto essere, ma non è stato, ma è una realtà esistente e viva, come quella in cui siamo adesso, in una notte dell'inverno del 1955, a quasi dieci anni dal termine di un conflitto mondiale che non sarebbe dovuto accadere e che, in un altro piano dell'esistenza, non si è mai realizzato. Vi assicuro, cari signori, che in una realtà parallela "Little Boy*" è solo il nome di una corroborante bevanda al cioccolato!» aveva tuonato Tosti, quella sera, tra gli sguardi a mezz'aria dei suoi colleghi scienziati...
Ma i "signori" del Circolo, forse anche per una certa invidia rispetto all'attenzione che Tosti rischiava di ottenere in ambito accademico, avevano reagito più o meno freddamente. Lo scetticismo, in certi ambiti, era ancora considerato una sorta di esclusiva nobiltà intellettuale. Questo lo sapeva Tosti e questo stava iniziando a capire White, cresciuto in un contesto del tutto differente e accademicamente molto meno competitivo anche se, tutto sommato, meno fecondo.
Da qualche tempo, i colleghi fisici teorici avevano dovuto iniziare a rivedere molte delle proprie convinzioni, ma il tutto si era mosso in un ambito così marginale da consentire loro di continuare a insegnare la fisica classica introducendo facoltativamente, in appendice, solo qualche riferimento alle nuove scoperte. In questo modo, il loro compromesso con l'avanzare della scienza si era risolto nel rimanere dei teorici classici, ma ben aggiornati. Tosti, al contrario, si rifiutava, dall'alto dei suoi quasi ottant'anni, di doversi rassegnare a concludere la propria carriera in quel modo, soprattutto dopo quelle recenti rivelazioni della natura, perché di questo si trattava: non di fare accademia, ma di capire le leggi del mondo. Una cosa fuori da ogni distinzione manichea tra scienza e religione, tra giusto e sbagliato, una cosa di cui prendere atto e da comprendere, nel pieno adempimento di una sorta di missione. «Ci sarà pure un motivo», tuonava Tosti all'indirizzo dei più scettici, «per cui l'universo è composto da un'infinità di elementi e di leggi e accoglie, invece, un solo essere, l'Uomo, in grado di decifrali!».
E ci credeva, Tosti, in quel che diceva, al punto da accalorarsi, da perorare in modo sempre accorato e con totale devozione la propria causa e da ricercare quel consenso, che gli veniva perennemente negato, come lo scopo ultimo della propria vita. E non per conseguire fama e successo, ma per assicurarsi che quel filone di ricerca non si sarebbe esaurito con lui e che Max, il suo erede spirituale, avrebbe potuto continuare il lavoro cominciato insieme in un clima più collaborativo e incoraggiante.
Ma neanche la pietà umana era riuscita a sollecitare un minimo di favore, quella sera, tra i signori del Circolo. La loro superbia, alimentata dalla certezza di appartenere alla intellighenzia che tutto sa e che niente smuove, aveva declassato gli argomenti del professore a semplici elucubrazioni senili, rinforzate dalla benevolenza di un allievo accecato dal timore reverenziale e aduso ad assecondarlo con la delicatezza di una dama di compagnia.
«Non abbiamo più nulla da dire, professore, è meglio andare, si è fatto tardi!» disse Max a una cert'ora, visibilmente dispiaciuto, porgendo il cappotto al suo amato mentore. Intuiva cosa attraversasse il cuore e la mente di quel genio incompreso e, dentro di sé, aveva da tempo iniziato a maturare l'idea di convincerlo a trasferirsi insieme in Inghilterra o in America, dove avrebbero trovato probabilmente maggior credito e più entusiasmo.
Tosti e White lasciarono il Circolo con un formale e tiepido saluto, che interruppe per pochi istanti l'anonimo brusio di quella strana serata. Fuori, aveva piovuto e la notte era fredda, il basolato brillava alle luci dei lampioni e la chiesa di San Vito, in fondo alla strada, si stagliava contro un cielo di sottili nuvole grigie che, come volute di fumo, sfilavano davanti alla Luna.
«Vento in alta quota!» disse il professore, puntando il bastone da passeggio per terra e prendendo fiato.
«Vi sentite bene? È tutta la sera che vi osservo, siete così pallido...» si premurò l'allievo.
«Non dovete preoccuparvi, Max. Si avvicina il tempo in cui la terra inizierà a reclamare questo mio fragile corpo, e io sono pronto.»
«Cosa andate pensando, professore! Siete l'uomo dalla tempra più forte che io conosca. Nonostante gli anni che ci dividono, ho sempre creduto che mi sareste sopravvissuto.»
«Non dite sciocchezze, mio caro. Voi partecipate ai miei studi ed esperimenti sugli universi paralleli. Forse, in uno di questi, sarò io a seppellirvi, ma non sperateci!»
In quel momento le campane di San Vito annunciarono la mezzanotte. Max White, per niente rassicurato, sbottonò il cappotto ed estrasse dal panciotto, cui era agganciato con una sottile catenina, il proprio orologio da taschino: «Puntuale come sempre!» disse soddisfatto.
Il professore, incuriosito, gli tese la mano: «Permettete?» e, al suono degli ultimi rintocchi, si fece consegnare da Max quell'oggetto dalla fine meccanica. Lo rigirò. La cassa recava le iniziali L.T, Ludovico Tosti, suo nonno. Era quello l'orologio che, da sempre, il professore custodiva in una bacheca di vetro, nel suo studio.
Ebbe un tremito.
Alzò lo sguardo.
Max, davanti a lui, era divenuto evanescente, inconsistente. Tosti poteva attraversarlo con lo sguardo e scorgere alle sue spalle la luce tremula del lampione che si specchiava sulla strada lucida, senza lasciare ombra alcuna. Questione di pochi attimi e Max, articolando con il labiale la parola «Maestro», scomparve del tutto. Tosti si ritrovò da solo, stringendo l'orologio in mano e osservandone la catenina che oscillava, intatta, nel vuoto.
«Mio Dio! Mio Dio!»
La voce soffocata del professore ruppe un silenzio agghiacciante.
Quell'oggetto prezioso che gli ticchettava nel pugno, dopo la propria morte e come da testamento, sarebbe dovuto andare proprio a Max. «Questo», pensò con il cuore in pezzi, «sarebbe dovuto accadere, se i più giovani sopravvivessero sempre a chi li ha preceduti!». Ma, tra le infinite combinazioni, si erano detti poc'anzi con Max, c'era purtroppo anche l'eventualità opposta e nessuno, meglio di loro, poteva esserne più consapevole.
Tre scenari si erano appena incrociati quella notte, su quella strada: nel primo, White e Tosti camminavano ancora insieme, sconfortati per gli esiti della discussione al Circolo degli scienziati; nel secondo, un solitario allievo regolava il proprio orologio nel ricordo di un Maestro che gli aveva permesso di indagare i segreti della natura, genio incompreso in un mondo ostile; infine, c'era la scena presente in cui il professore, rimasto scompagnato, veniva fatto destinatario di una rivelazione improvvisa, a conferma delle proprie, vere quanto vituperate, intuizioni.
Non un esperimento, ma la realtà aveva svelato ai loro occhi come eventi del tutto inconciliabili potessero coesistere, incontrarsi, e come le alternative condizioni dell'esistenza fossero destinate a lasciare il passo alla condizione presente, per ritornare nel proprio "altrove" con stessa dissolvenza con cui Max si era appena dileguato.
Dunque, Max White, allievo compassionevole, aveva traghettato quell'orologio al suo Maestro da un'altra dimensione possibile, quella in cui, giovane fisico, lo avrebbe ereditato proprio da Tosti, insieme a idee e ambizioni, per portare finalmente a compimento le ricerche di una vita. E glielo aveva consegnato in quella precisa realtà, memore di amarezza e incomprensioni, dove purtroppo l'allievo sarebbe scomparso prima del Maestro, lasciandogli tuttavia una eredità ancora più grande: la conferma delle loro teorizzazioni sul funzionamento dell'universo e il senso dell'illusorietà di qualunque dispositivo, sebbene prezioso e preciso, che si prefigga di misurare un tempo che, in qualunque piano dell'esistenza, non appartiene certo agli uomini.
Il professore venne assalito dai ricordi che dipingevano la storia di quel giovane; quella storia che lui, parafrasando Sant'Agostino, definiva "il presente del passato"... «Ho come l'impressione di aver vissuto un altro tempo!»: queste le parole che Max aveva pronunciato qualche settimana addietro osservando i molli orologi del quadro di Dalì. Tosti, allora, gli aveva bonariamente sorriso; riteneva fosse normale che chi avesse vissuto gli anni migliori della propria vita durante un conflitto mondiale potesse sentirsi a quel modo, strappato dalla propria gioventù, scaraventato in una dimensione "altra" rispetto a ogni attesa. E quando Tosti, alla riunione del Circolo, aveva citato Little Boy, tra il professore e Max c'era stato uno sguardo d'intesa che sottintendeva proprio quello, la nostalgia per un altro tempo. Ora, sulla strada di San Vito, Tosti capì che quello di Max White non era solo il rimpianto per gli anni persi, ma l'eco del sottile richiamo di una alternativa possibile, «spero migliore», si augurò.
Così, chinato il capo in segno di resa, ma con animo profondamente riconoscente, il professore dovette proseguire, da solo, il cammino. Orfano, ma unicamente in uno dei tanti universi possibili, del suo caro erede Max White.

*"Little Boy" è il nome in codice della bomba sganciata su Hiroshima il 6 agosto 1945

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