QUATTRO.

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Gli armadietti della scuola erano di un metallico grigio plumbeo. Le pareti bianche che adornavano i corridoi rendevano il tutto eccessivamente claustrofobico ma sembravo l'unica ad accorgersene. Gruppi di amici di ogni specie ridevano e scherzavano felici di passare un'altra giornata insieme mentre io semplicemente non vedevo l'ora di uscire da questa scuola per andarmene. Odiavo sentirmi sempre fuori posto ma nessuno lì dentro poteva capire quanto fosse sgradevole vivere in un corpo che non si riconosce, vivere una vita dalla quale si è totalmente dissociati.

Dove ogni cosa che fai è irrilevante perché ormai non dai importanza più a nulla. Diventa tutto avvolto da un leggero strato di ombra. Riesci a vedere oltre l'oscurità ma non ne vedi i dettagli e ti va bene così. Non sprechi energie ad allungare la mano per scostare quella nebbia. Le permetti nella sua falsità di mostrarti il mondo nella sua più orribile risoluzione.

Strinsi i libri al petto appena il suono della campanella mi riportò alla realtà. Dovevo raggiungere la classe di biologia. Sospirai pesantemente pensando che avrei dovuto trascorrere un'intera ora in una classe stretta e colma di persone che non apprezzo. Mi sarei dovuta sedere e vivere il resto del mio tempo fingendo di stare bene e no... non stavo bene. Non dopo quello che era successo neanche qualche ora prima.

Passai l'intera ora a tenermi il viso tra le mani e a fissare fuori dalla finestra un punto in lontananza dove credevo che si trovasse il mio maniero. Mi sembrava di riuscire ad intravedere la cupola della soffitta. Non venni interpellata nemmeno una volta, semplicemente in quell'istante io non esistevo e mentalmente ringraziai il professore per non avermi costretta a parlare dinanzi a tutti.

«Weirdo, è suonata la campanella. Vedi i fantasmi dalla finestra?» Una risata fragorosa mi riportò sull'attenti. Tutti erano in piedi e con i libri in mano pronti per cambiare aula. I loro sguardi puntati su di me. A parlare fu Jennifer. Tutte le stronze di tutte le scuole si chiamano così. È come se al momento della nascita i genitori chiamando i figli 'Jennifer' gli trasmettessero il dono di essere persone disgustose. Un po' come quando in famiglia hai un parente con il cancro e dentro di te sai che presto o tardi lo avrai anche tu.

Non risposi, mi limitai a raccogliere i miei libri e ad alzarmi dalla sedia. Non mi toccava più nulla. Mi chiamavano Weirdo dalla prima liceo e dopo anni ho iniziato a provare anche del piacere verso quel soprannome. Jennifer e le sue sottoposte vedendomi totalmente indifferente si scambiarono un'occhiata. Farle sentire stupide davanti a tutta la classe non dev'essere stato piacevole: «Andiamo ragazze. Oltre a vedere i fantasmi ora è anche sorda.» Si girò con una smorfia sbattendomi i suoi profumatissimi capelli in faccia e si incamminò verso il corridoio.

Aspettai qualche istante. Non volevo aggregarmi alla massa di studenti che stava uscendo così finsi di metterci più tempo del solito a sistemare i miei averi e appena i miei compagni iniziarono a dissiparsi mi incamminai anche io.

«Signorina Hudson, posso chiederle di fermarsi un secondo? Vorrei parlarle.» Mi bloccai all'istante appena l'insegnante mi nominò. Ero talmente abituata ad essere chiamata Weirdo che per un attimo mi dimenticai il mio cognome.

Mi diressi verso la cattedra stringendo al petto i miei libri: «Purtroppo signorina Hudson devo comunicarle che sarò costretta a bocciarla al mio corso. I suoi voti sono in caduta libera rispetto agli anni precedenti e da parte sua non vedo altro che svogliatezza e distrazione.» Deglutii pesantemente sapendo con certezza che mio padre non l'avrebbe presa bene, anzi si sarebbe infuriato ma non con me. Si sarebbe arrabbiato con Jacob, mio fratello. Da quando mia madre è morta mio padre non fa altro che lavorare per mantenere la famiglia. Di giorno come operaio nell'acciaieria di paese e la sera come pizzaiolo in un mediocre ristorante italiano prossimo al fallimento. Non ha più tempo per badare a noi e non gliene faccio una colpa. Se non fosse per i suoi sacrifici probabilmente non potrei nemmeno studiare. Una parte di me si sentii colpevole. Tanti sforzi per cosa? Per essere bocciata? Non potevo creargli questo dispiacere. Si affida da anni a mio fratello per accudirmi, lui stesso ha rinunciato al college per aiutare la famiglia, l'unico problema è che mio padre incolperebbe lui per il mio fallimento etichettandolo come un suo insuccesso, perché lui deve badare a me.

«Mi..mi dispiace.» Non riuscii a dire altro. D'altronde cos'altro potevo dire? Non avevo giustificazioni. «So come la trattano in classe, so come la chiamano, per questo cerco di non attirare l'attenzione dei suoi compagni verso di lei, mi capisce? Tuttavia se la vedo ancora passare l'intera ora a guardare fuori dalla finestra anziché impegnarsi per raggiungere la promozione io sarò costretto a farlo. Ora vada, o farà tardi alla prossima lezione.» Annuii con la gola estremamente secca e mi diressi nel corridoio ormai vuoto e silenzioso della scuola. Non potevo dargli torto. Faccio schifo pure in questo. Stupida.

Non potevo nemmeno incolpare la mia situazione familiare per il mio disastroso rendimento scolastico perché se davvero ci tenessi a scappare farei di tutto per prendere buoni voti, una borsa di studio, e andarmene in qualche college sperduto e lontano miglia da qui. Cambiare città o addirittura Stato, conseguire la laurea e trovarmi un lavoro. Mantenermi senza mai più dovermi voltare verso la mia famiglia. Senza mai più dover pesare sulle loro spalle. E cazzo se lo farei se solo avessi una minima di idea di cosa fare nel mio futuro. Anzi, se solo riuscissi a vederlo sarebbe già un enorme passo in avanti per me. Ho appena diciotto anni, questo è l'anno decisivo. L'anno che metterà la firma su quello che sarà il mio avvenire. Quest'anno ci sarà l'ultimo ballo della mia vita, l'ultima estate da liceale prima del college. Tutte le scelte più importanti saranno in questo ultimo anno di liceo e io non riesco a vedere la mia vita oltre i diciannove anni. Non riesco proprio ad immaginarla. È come se una piccola parte dentro di me sapesse che l'anno prossimo per me non esisterà. La mia stessa esistenza svanirà e dopo non ci sarà più nulla. È una sensazione angosciosa e per quanto fragile la sua presenza dentro di me pesa come un macigno.

Camminai a passi svelti verso la prossima classe. Sguardo basso sui miei piedi e i libri stretti al petto. Non ricordo l'ultima volta che ho camminato lungo questi corridoi a testa alta, forse non l'ho mai fatto.

Percorsi il corridoio scorrendo con lo sguardo il pavimento in linoleum che rapidamente mi passava sotto ai piedi: «Hei! Ma sta attenta dove cammini, cazzo.» Sbattei improvvisamente il viso contro qualcuno. Alzai gli occhi da quel petto tonico al viso. Penetrati e glaciali occhi neri mi spararono in pieno volto facendomi barcollare all'indietro. Mi fecero sentire improvvisamente stordita e di gomma. Le ginocchia iniziarono a tremare, fecero fatica a mantenermi stabile. Rimasi quasi a bocca asciutta appena lo riconobbi. Era il ragazzo del maniero, il profanatore. Non mi ero resa conto di quanto tutto ciò fosse reale fino a quel momento in cui le luci al neon dei corridoi nel loro pallore squallido gli illuminarono il viso mostrandomi ogni suo dettaglio che la sera prima l'oscurità mi aveva negato. «Aaah sei tu.» sorrise. Continuai a non dire nulla restando ferma immobile a guardarlo. È interessante come delle semplici ombre possano cambiare drasticamente l'immagine di una persona. Anche al maniero mi sorrise ora che ricordo, ma le tenebre che adornavano il suo viso resero quel sorriso talmente fragile che si sarebbe potuto spezzare da un momento all'altro.

«Giusto, è vero che a te il gatto ha mangiato la lingua.» Disse in modo beffardo. Quel sorriso mi stava infastidendo. «So parlare.» Dissi a bassa voce cercando di farmi venire un po' di coraggio. Lo guardai negli occhi cercando nelle sue iridi un po' di rassicurazione che non volesse schernirmi come fanno tutti ma niente solo l'oblio di due iridi nere come la pece. «Semplicemente non voglio sprecare fiato inutilmente.» Abbassai nuovamente lo sguardo sentendomi in soggezione da quegli occhi così apatici. Gelidi ma ardenti allo stesso tempo perché mi sentii la pelle bruciare. Mi scostai malamente tirandogli una spallata per farmi spazio. Il cuore mi batteva all'impazzata e la sua presenza così vicina iniziava a scottare.

Feci un passo in avanti liberandomi da quella situazione ma lui si girò afferrandomi per il gomito. «Devi smetterla di scappare.» Questa volta le sue parole non erano più contornate dal suo solito sorriso beffardo. Erano serie, talmente serie che mi pugnalarono dritto nel cuore. Non ebbi il coraggio di guardarlo mi limitai a scostarmi dalla sua presa dirigendomi verso l'aula di letteratura. Non dissi una parola, lasciai che la sua voce calma e severa mi consumassero dall'interno come un virus micidiale che logora ogni cosa che tocca. Mi accarezzai il braccio, sentivo ancora la sua mano calda stringermi il gomito. Quel tocco mi avrebbe lasciato il segno.  

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⏰ Ultimo aggiornamento: Sep 29, 2021 ⏰

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