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Firenze, 01 luglio.

Era una giornata di sole, uno di quegli infiniti e monotoni pomeriggi estivi dai quali non si può scappare se si vive in città. Fulvio sentiva la testa pesante e sudava forte, talmente forte che aveva la sensazione che l'Arno intero dovesse scendere dalla sua fronte, e quasi non riusciva a respirare dall'afa. La noia dominava quella giornata. Faceva avanti e indietro lungo il salotto, apriva il frigo e poi si buttava sul divano. Accendeva la tv, poi si alzava, apriva di nuovo di nuovo il frigo e si ributtava sul divano. Eppure era stata una scelta precisa quella di trasferirsi a Firenze per fare l'Università. Gli piaceva perdersi per le sue vie e girare per il Duomo e Santa Croce e il Ponte Vecchio e il Piazzale. Ciò che lo affascinava maggiormente era la luce, qualcosa di magico avvolgeva quel posto, qualcosa di eterno. Ma se a diciannove anni gli sembrava la città più grande e frenetica del mondo, col passare dei mesi si accorse che, in fondo, non era la metropoli che si aspettava. E in quel caldo pomeriggio d'estate, dove le strade non erano che un deserto di catrame, lui si sentiva inutile, inutile e incompleto.

"Non vi fa schifo tutto questo?" disse lentamente rimanendo sdraiato sul divano.

"Cioè?" fece Giorgio sporgendosi dalla sedia sulla quale stava seduto leggendo una rivista.

"Questo: la vita che facciamo. Io ogni giorno mi sveglio col pensiero di mollare tutto e andarmene."

"Sì, e per fare cosa?"

"Per viaggiare, per conoscere persone, per vedere nuovi posti, per fare veramente qualcosa, ecco!" rispose Fulvio animandosi via via che elencava ciò che avrebbe voluto fare.

"Sempre così tu! Ogni giorno vuoi scappare per andare chissà dove e alla fine non ti muovi di qui e continui a tormentarci con le tue stupidaggini" disse Giorgio.

I due erano coinquilini, ma provavano l'uno nei confronti dell'altro una sorta di astio. Se Fulvio aveva spesso uscite come queste, spensierate e quasi folli, Giorgio, all'opposto, si godeva tutti i momenti di routine della sua vita, provando un inspiegabile piacere a vivere una vita regolare. Fulvio incarnava tutta la sconsideratezza a cui Giorgio aveva messo i freni. E così, appena sentiva i suoi discorsi, gli saliva una gran rabbia e controbatteva a tutto ciò che diceva.

"Ma quando la smetterai?!" continuò sbuffando "questa è la vita Fulvio, questa è la realtà! Non siamo delle rockstar, non viviamo ad Hollywood e non siamo personaggi della tv. Svegliati!"

Dario, l'altro loro coinquilino, si intromise nel discorso dicendo: "ma ve lo immaginate se fossimo famosi sul serio? Quella sì che sarebbe una svolta!" e continuò, non accorgendosi dei toni accesi degli altri due, dicendo che lui avrebbe voluto essere un calciatore famoso, come Messi, anzi, come Maradona. Per Dario il calcio era una vera e propria fissazione. La domenica, ad esempio, gli prendeva lo sconforto se la squadra per la quale faceva il tifo non riusciva a vincere, e finiva per ritirarsi nella sua stanza non uscendo più fino al giorno successivo. Se si trattava di un derby, poi, non riusciva a dormire per tutta la settimana successiva alla sconfitta. E, durante le partite, a ogni goal mancato prendeva a pugni il muro e imprecava contro il cielo. Era più che una fede calcistica, era una vera e propria mania.

Quel giorno con loro c'era anche Carlo, studente di giurisprudenza indifferente e pieno di sé. Lui sapeva che un giorno avrebbe potuto permettersi tutto quello che voleva e così si limitò a dire: "io invece non vedo l'ora di finire questa maledetta università per poter fare il giudice e sbattere in galera chi mi pare."

"Viviamo in mondi diversi noi" disse Fulvio rivolgendosi a Dario e con tono agitato concluse: "io non voglio essere nessun altro."

"Quindi, fammi capire, non vorresti essere Messi o, che ne so, Brad Pitt?" proseguì Giorgio, non volendogli far passare neanche questa.

"No, non vorrei esserlo. Aspiro a migliorare la mia vita, certo, ma non vorrei essere nessun altro. Che persona sei se vuoi essere qualcun altro nella vita?"

"Ma perché devi sempre esagerare? Stiamo solo fantasticando e tu te ne esci con questa stronzata del 'voglio essere me stesso'. Sai che ti dico: sei uno sfigato! 'Voglio essere me stesso' ma senti questo..." disse Giorgio andandosene in camera sua infastidito.

Poco dopo anche gli altri due se ne andarono. Dario, pure lui in camera sua, mentre Luca tornò nel suo appartamento in centro. Fulvio, rimasto solo, si accese una sigaretta e prese una birra dal frigo.

-Sì, che pesantezza, ma quale pesantezza! Devo andarmene da questo posto!- si ripeteva.

Stando in quella casa aveva la costante sensazione che dovesse scoppiare una lite da un momento all'altro. Decise allora di uscire, preferiva sfidare il sole che stare là dentro. Lasciò la birra a metà, prese le chiavi e uscì velocemente sbattendo la porta.

La sua vita si stava appiattendo sempre più. Passava la maggior parte del tempo libero avvolto dal torpore, immobile nel letto. Aveva bisogno di una scintilla, qualcosa che desse una scossa alla sua vita. Scese in strada, si avviò alla fermata di Piazza Dalmazia e si infilò nel primo autobus che passava. Non aveva alcuna meta, ma aveva voglia di andare. Dentro il bus c'erano soltanto due vecchietti, qualche asiatico e tre ragazzi che urtavano il suo precario equilibrio mentale con le loro assordanti risate. Pensò a dove poter scendere, il 14 portava in stazione, ma prima passava per Via Corridoni. Proprio lì salì un gruppo di persone, tra cui una ragazza. Lei si sistemò esattamente di fronte a lui e dopo avergli dato un'occhiata, si girò dandogli le spalle. Guardandola Fulvio pensò a come potesse essere la sua vita se solo avesse avuto una ragazza come lei al suo fianco. E fantasticò su quella sconosciuta, arrivando addirittura a sposarla in quella fantasia. E si immaginò di raccontare la loro storia agli amici, di quella ragazza conosciuta in un autobus che poi divenne la donna della sua vita. Nel frattempo, l'autobus continuava il suo giro e Fulvio, ripresosi, si accorse che la ragazza era scesa. E sfumato il sogno prenotò anche lui la fermata e scese, in un posto qualunque. Vide un bar e decise di entrare, quasi presagendo che quell'incontro non potesse essere fortuito e con la speranza di incontrarla nuovamente là dentro. Si guardò intorno, aspettava il suo momento, aspettava quella ragazza, o una qualsiasi altra ragazza o un segno, o qualsiasi altra cosa. Era sicuro che dovesse accadere qualcosa, qualcosa di grande. Finì la birra e ne prese un'altra, aspettando. E continuò così per due ore. Poi, rassegnato, si vide costretto a tornare a casa. Il pomeriggio correva verso la sera, aveva fame e non aveva più un soldo.

A casa l'accoglienza non fu delle migliori. Giorgio vedendolo rientrare disse: "ecco il nostro artista, che torna a casa dopo aver fatto una passeggiata da solo. Sei triste Fulvio. Solo e triste."

-Non gli è ancora passata- pensò Fulvio rispondendo con noncuranza: "fatti una sega coglione, io vado a letto."

L'indomani avrebbe dovuto trascorrere l'intera giornata in tirocinio e nell'impostare la sveglia alle 6 del mattino perse anche l'appetito. La vita da infermiere gli toglieva linfa vitale.

I giorni di VenereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora