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Se c'era una cosa che Fulvio non sopportava era rispondere alle domande degli amici su quello che si faceva in ospedale, specialmente quando incontrava qualche vecchio compagno del liceo. Una sera, tornato a casa nella sua piccola città di provincia per il fine settimana, non avendo nulla da fare, decise di accettare l'invito a uscire di uno di loro, Roberto. Si diedero appuntamento in un bar frequentato da entrambi durante gli anni della scuola, alle 10 di sera. Si sedettero e dopo le domande di routine su come procedevano vita e studi, Roberto domandò: "l'hai mai visto un morto?"

"Si l'ho visto."

"E com'è?"

"Lo vuoi sapere?"

"Si...anzi no. Sono un po' spaventato dalla risposta. Io ho paura perfino degli aghi, figuriamoci dei morti. Non riuscirei mai a fare quello che fai tu."

"Beh, è come vedere un uomo che dorme, è solo un po' più pallido."

"Io sarei svenuto. Certo che devi avere proprio una vocazione."

"Si...proprio"

"No, dico sul serio. Non deve essere facile sopportare il sangue e tutte quelle altre cose."

"Che intendi?"

"Si dai, tutto il resto...la merda dei vecchi, le dentiere, i culi mosci, queste cose qua. Ci vuole un grande cuore."

"Chiamalo pure cuore, ma senza lo stipendio a fine mese nessuno lo farebbe. E poi basta con questa storia della vocazione, è solo un lavoro, se una cosa la devi fare la fai."

Il tono di Fulvio lo lasciò di stucco. "Scusa, non credevo te la prendessi tanto..." continuò lui.

"Beh, comunque è così, non esiste nessuna vocazione."

Dopo un prolungato silenzio, Roberto riprese: "io credo di sì, invece. E so che riempie il cuore anche a te, anche se non vuoi ammetterlo."

- Che coglione - pensò Fulvio, ma si limitò a dire: "è un lavoro Rob e come tanti altri lavori bisogna studiare e applicarsi, questo è quanto."

"Sappi comunque che vi stimo tanto."

Fulvio si spazientì e di colpo disse: "si grazie. Scusa comunque, devo proprio andare". Non reggeva più la retorica di Roberto che giudicava qualcosa dal di fuori, senza sapere minimamente di cosa si trattasse.

"Ma come? Di già? Non abbiamo nemmeno finito le birre"

"Si, scusami, ma avevo del tutto dimenticato che la prossima settimana ho un esame e sono davvero indietro, anzi devo ancora iniziare a studiare, non sai che roba!"

"Che esame hai?"

"Ehm... Biochimica, stanne alla larga te che puoi."

"Va bene, allora. Mi ha fatto veramente piacere rivederti, quando torni in città fammi sapere che organizziamo qualcosa."

"Si, certo." disse Fulvio già alzatosi in piedi per uscire dal locale.

Fulvio credeva che non esistesse nessuno al mondo in grado di capirlo e l'unico modo che conosceva per avere un po' di pace era stare da solo. Tornato a casa, si mise subito a letto. Volgendo il capo notò che alla sua destra, sul comodino, aveva lasciato un libro di Henry Miller. Ricordò che la copertina rosa lo aveva attirato e, anzi, fu il vero motivo per cui comprò quel libro. Nei suoi rientri notturni aveva sempre bisogno di leggere qualcosa, non riusciva a dormire sennò. Toccare le pagine di un libro era come una consolazione per un giorno buttato o vissuto senza troppo impegno. Era una delle poche cose che veramente amava.

Leggeva tanto Fulvio, e ogni libro che possedeva rappresentava una parte di sé. E toccando i libri sfogliandone le pagine, intimamente sognava di scriverne uno, un giorno. Ed era geloso di tutti i suoi libri, dal più bello al più brutto. Lo mettevano alla prova. Alcuni non riusciva a finirli, altri li leggeva tutti d'un fiato. In quelle pagine riviveva la sua vita, e le gioie e i dolori di quelle pagine le associava alle sue gioie e ai suoi dolori. E le ferite alle volte si riaprivano e alle volte si addolcivano. Ed era per questo che amava leggere nei suoi ritorni notturni.

I giorni di VenereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora