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Quei racconti sulle divinità fatte a pezzi non giungono come nuovi alle mie orecchie, sento sulla mia pelle cicatrizzata il tocco di un comune destino che eternamente, ciclicamente ritorna.

Come se il dio egizio, vittima di fratricidio, avesse posto sulla mia testa una mano che, lentamente, mi indirizzava allo stesso destino lunare che, scandito in fasi, muore e si rigenera.

Ora ignara, ora consapevole, mai avrei potuto rifiutare l'offerta, giacché ben sapevo che ogni cosa ha origine dal sangue e che tutto ivi deve farvi ritorno secondo necessità.

Il sangue è vile, sporco, meschino; è il nutrimento dell'umanità intera che per mascherare la propria infelicità, la propria angoscia e la propria cieca disperazione, vi fa un ricorso sfrenato, cercandovi invano un senso da dare alla propria vita. Tutto ha origine dalla morte, dall'oblio, ma nessuno sa che ricongiungendosi ad essa non vi è modo alcuno per tornare a galla.

Si è soliti a scongiurare la veridicità del mito, della risalita dall'Ade scuro e profondo, solo perché esseri mortalmente umani – oramai come se avessero mozzate le loro lingue – non possono saggiarne il sapore. Eppure c'è, credetemi, il modo; l'unico gancio sta nella chénosi grecamente intesa, nello svuotamento totale del proprio Io, nella consapevolezza della propria inconsistenza e della vacuità del nostro fondamento. Liberatami del peso della mia sistenza, mi sono fatta ex-, fuori, non sotto il segno di un'evasione, quanto più un graduale allontanamento in direzione di quella via che gli dèi mi avevano indicato, a poco a poco, facendomi visita.

Il dio crocifisso è giunto alla mia porta un dì ed io, ancor prima di fargli spazio, mi sentivo messa in croce. L'ho accolto, ed egli con parole benevole mi ha parlato di una diade a me non ignota, connotato intrinseco dell'umana realtà: sofferenza e morte. Passo dopo passo, giorno dopo giorno, con non poca facilità l'uomo si allontana dalla sua genesi per ricongiungersi al cupo nulla; oppresso nel petto avanza con gli occhi sgorganti di lacrime perché non vuole staccarsi dalla materialità di cui non capisce di sentirsi prigioniero. Ma solo chi essendosi svuotato, svestito dei suoi attributi, ha sorriso dinnanzi al suo nudo riflesso potrà procedere senza rammarico alcuno. Ero pronta ad accettarlo, il mio destino, avrei fatto di tutto perché è inutile sfuggirgli. Non vi è uomo né dio di cui si abbia nome che abbia trovato scampo di fronte ad esso. Restavo ormai in agonizzante attesa del momento in cui sarei anch'io stata fatta a pezzi, cercando di non distogliere il pensiero, di non volgere lo sguardo altrove rispetto all'essenza della sorte mia.

Il dio sbranato è giunto alla mia porta un dì, adornato d'edera. Nella destra teneva il mio veleno, prodotto dell'effimera gioia, dell'estasi distruttiva; la sinistra poggiata allo stipite e con sguardo in attesa di un varco per lasciarlo entrare. Il mio cuore scalpitava e il respiro accelerava, un inusuale tremolio mi percuoteva con vigore e i miei occhi si chiudevano e aprivano aritmicamente, ora come nella veglia, ora come nel sonno. Mi sussurrava anch'egli all'orecchio di una diade intrinseca all'esistenza umana, quasi della stessa con-sistenza, la quale era composta dal dolore seguito dalla morte. Soffrire e morire, avevo accettato questo destino. Ma allora ancora non sapevo che quella era la destinazione mortale di un qualunque essere, di quella specie di cui io non facevo più parte. Soffrire, morire e rinascere; i termini sono tre, ma il terzo corrisponde solo ad una ripresa del primo: questo mi spettava.

Essere rinchiusa in questo circolo ancora e ancora, e aspettare di passare la mia sorte a chi dopo di me sarebbe giunto.

L'attesa, in assenza di coordinate, pare infinita. Colmavo gli istanti, i frammenti di tempo, con inutili occupazioni, dedicandomi ad esse con una tediata voracità. Parlavo in sogno con Afrodite e le chiedevo di svelarmi i segreti di Amore, suo figlio, il quale mai aveva risposto a una mia chiamata. Ella rispondeva enigmatica e suggeriva di mantenermi paziente, io sospiravo e mi abbandonavo al sonno profondo, arresa.

Un dì, finalmente, qualcosa si mosse. Esteriorità e interiorità furono accarezzate simultaneamente, la terra e le membra si agitarono insieme, ed io compresi che l'ora era giunta: stavo per perdere con-sistenza ed essere dilaniata, stavo per raggiungere l'immensa sofferenza che tanto avevo agognato per sentirmi viva, per vedermi rinascere sotto una nuova luce. Ma prima, ero stata incaricata di un ultimo compito: lanciare un segnale alla prossima vittima di questo cruento e salvifico sacrificio. Spiegarle che solo nella sofferenza vi è speranza. Che solo nella morte vi è rinascita. E che questo destino è per pochi.

Mi presentai al suo cospetto – sentivo le mie carni già lacerarsi e ne provavo un piacere voluttuoso che speravo mai finisse – e lei mi aprì senza esitare. Alla sua vista il mio cuore provò una fitta interiormente a cui non seppi dare spiegazione; mi sorrise con dolcezza e mi tese la mano. Rimasi immobile, in uno stato quasi estatico, assoluto; fui rapita dalla profondità del suo sguardo e dall'amabile suono che emetteva la sua voce mentre articolava le parole "Finalmente sei giunto, o fato mio!".

Un grido straziante uscì improvvisamente, senza ch'io potessi far qualcosa per contenerlo, e invocai Afrodite la quale rispose al mio richiamo nell'immediato. Cosa, le domandai, Cosa sta accadendo, o mia dea?; Sono i segreti d'Amore, come mi avevi chiesto, rispose lei.

Ma l'amore, che fino a quel momento avevo identificato col mio desiderio di morte, ora mi accorsi che null'era al di fuori della morte stessa. E che non c'era niente di salvifico in questo.

La vita è sofferenza e vi è sofferenza anche nella morte.

Gli dei son fatti a pezzi, sempre. E amano non senza pena attraverso le loro carni fatte a brandelli, da lontano, coloro a cui hanno fornito una tale condanna.

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