Un giorno senza di me

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Forse ce l'avevo dentro e ci sarei arrivato comunque ma, ripensandoci adesso, sono convinto di aver incontrato il rap anche come risposta a un oscuro malessere che ho cominciato a combattere nei primi anni dell' adolescenza.

Tutto è iniziato un sabato mattina come tanti, avró avuto quattordici anni, sono a casa di mio padre e mi sveglio un po' rincoglionito, non ho voglia di alzarmi dal letto. In realtá, non è che proprio mi sveglio, apro giusto un occhio, mi guardo intorno e poi decido che non ho forze, nè voglia di indagare su quello che sta succedendo. Vado avanti per ore in una sorta di dormiveglia, mi sento strano e resto a letto fino alle due.

Quando mi alzo sono stanco e triste allo stesso tempo. Continuo a dirmi che non sto bene, ma soprattutto non sto capendo che mi succede. Alla fine decido di uscire, prendo il motorino e faccio quello che facevo spesso il sabato a quell'età: vado verso le scuole per beccare qualcuno che conosco, chiacchierare, cazzeggiare un po' e guardare le ragazze che escono. Ma poi, quanso sono lì, non ne ho voglia.

《Cazzo c'hai?》 mi chiede un amico.

《Non lo so, boh...》

《Sei strano.》

《Me ne torno a casa, ti scrivo dopo.》

《Dai, Emi, dove cazzo vai, stai qui con noi, c'è il sole, andiamo alle Torri Bianche.》 (Per chi non lo sapesse, è un centro commerciale a Vimercate.)

《No, adesso non mi va.》

La realtà mi sfugge, è come se mi fossi svegliato in un altro mondo: intorno a me c'è tutto quello che ha sempre fatto parte della mia vita, gli amici, il motorino, mia madre, la casa di mio padre... ma mi sembra di non farne più parte, come se non fossi veramente qui a muovermi nel mondo. È qualcun altro.

Tornando a casa mi specchio nelle vestrine e non riconosco il mio volto, so che è il mio ma mi appare estraneo.

Eccoci di nuovo con le gambe rotte,

gli occhi sono pesti e le valigie sfatte.

Io mentre respiro mando schegge nei polmoni.

Tu mi sembri forte più di quanto sai.

A casa trovo mia madre che nel frattempo è tornata dal lavoro.

《Cos'hai?》 mi chiede preoccupata.

《Non lo so, non mi sento bene... mi sento triste.》

Cosa posso dirle, se non che sto male? Non so descrivere quello che sento, lo sento e basta.

Le dico che ho l'ansia e lei cerca di tranquillizzarmi, dice che forse sono solo un po' stanto, ma l'ansia non diminuisce, anzi aumenta. Anche con mia mamma mi sento stranissimo, come se parlasse e mi muovessi in un mondo clone, è uguale al mio ma non è lo stesso, lo vedo ma è come se non lo riconoscessi.

La cosa che più mi fa star male è che non capisco quello che mi sta succedendo.

Mi ricordo che, quando ero un bambino e mi capitava di non dormire, magari andavo ad accendere la tv e vedevo qualcosa che mi terrorizzava, allora scoppiavo a piangere perchè non capivo più la differenza fra il mio mondo in cui non c'erano mostri e quello che avevo appena visto.

Ecco, quel giorno per me è la stessa cosa: ho la sensazione di essere finito in una realtà parallela infestata di mostri e di non poterne più uscire.

Mia madre cerca di calmarmi: 《Mettiti tranquillo a letto, vedrai che domani ti passa》.

Prova a rassicurarmi ma non c'è verso, mi sento addosso i mostri tutto il giorno.

Mi rinchiudo in camera mia, sto sotto le coperte, non so cosa fare. Vengono a trovarmi gli amici e cercano di convincermi a uscire, ma non c'è verso.

《Dai, Emi, andiamo a fare un giro.》

《No, sto a casa.》

《Dai.》

《No.》

Passo le giornate nella mia stanza, credo a far niente, sono davvero a pezzi, tremo e sono sempre sconvolto. L'unico momento in cui mi sento un po' meglio è la sera, verso le dieci, quando comincio a pensare che finalmente anche questa giornata di merda è finita.

Toccami la faccia e dimmi che ci sono

e che la pausa serve a fare un uomo,

in cambio io ci credo e cambio accenti al mio dolore.

Non dormo più, inizio a fare sogni mostruosi.

Ogni singola notte rincorro gli stessi incubi, sempre splatter, pieni di sangue, violenza. Una volta sogno di essere a Milano, da solo, ed è una città deforme, militarizzata. Ci sono aerei ed esplosioni tutto intorno a me e in ogni traversa carri armati e soldati. Io ho paura, corro all'impazzata e per scappare dalle bombe mi butto in una piscina e mi ritrovo in mezzo a corpi mutilati e budella. Oppure sono in una specie di chiesa, entro e c'è questo altare, io mi avvicino, salgo i gradini, sono tantissimi, finché mi accorgo che questa scalinata che porta all'altare è trasparente e quando provo a guardare attraverso vedo un ammasso di corpi, sembrano le vittime di un terremoto, schiacciate dalle materie.

In casa non sanno più come essermi d'aiuto e mia madre mi manda da una psicologa, che è gentile, mi ascolta, fa delle ipotesi sul mio malessere ma non riesce né a spiegarmi perché soffro né a farmi stare meglio.

Senza offesa, ma per me è come parlare con un amico, semplicemente un po' più adulto, mi dà qualche incoraggiamento più di buon senso che altro. Continuo a non capirci granché e a stare male.

Dopo qualche mese, decido di smetterla e provo a darmi tregua: rimanere chiuso in casa diventa più difficile, provo a ricominciare a fare una vita normale.

Ok, esco. Ma mi guardo e capisco che di normale c'è proprio poco: provo a vivere la mia vita ma mi sembra di non riuscire a toccarla, è come se ci surfassi sopra, come se ci fosse un vetro tra me e le emozioni.

Penso che comunque sia meglio uscire, e lo faccio. Mi metto a frequentare i tipi più idioti, quelli che ti dicono:《Zio, non pensarci.》.

Ho un obiettivo chiaro in testa: devo diventare stupido. Vedo che tutti questo imbecilli ridono e io divento come loro, mi brucio il cervello con le droghe e magari finisce che riesco pure a stare bene.

Ma non funziona così. E per fortuna, dopo due anni, arriva la musica; dopo aver brancolato nel buio, angoscia, voglia di piangere, comincio a capire, a prendere le misure, sento molto meno il mio malessere, è come se avessi trovato il modo di convivere con tutto questo.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Mar 30, 2015 ⏰

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