Fuggire

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La guerra era finita e lei aveva sentito il bisogno di scappare il prima possibile. Aveva bisogno di una tregua, di ossigeno. Il mondo magico adesso le era diventato ostile. Era iniziato tutto la mattina stessa, l'alba del tre maggio aveva fatto sorgere un nuovo sole, nuove speranze e lacrime. Nel dolore generale, però, nel cuore di tutti stava nascendo il calore che solo la ventata di una nuova vita può infondere. Solo un cuore era rimasto congelato, il cuore di Hermione Granger. Si era fermata a riflettere solo un attimo sul ponte quasi completamente distrutto, lo sguardo perso nel vuoto e un senso di inquietudine crescente alla bocca dello stomaco.

"Mione, andiamo! Ci stanno aspettando tutti". Ron la distrasse dai suoi pensieri, ancora troppo intricati per essere esaminati con la giusta lucidità. Si mosse lentamente, incapace di mostrare entusiasmo, si sottrasse allo sguardo inquisitorio di Harry sapendo che sarebbe stato l'unico tra tutti a capire che qualcosa non andava.

L'entrata del Trio in sala grande non passò inosservata e, prevedibilmente, prevalse l'entusiasmo, prevalse la libertà. Iniziarono le congratulazioni e le pacche sulle spalle. Discorsi più o meno solenni e abbracci carichi di emozione. Ma Hermione si sentiva estranea a tutto questo, iniziava a sentirsi soffocare, e proprio in quel momento voltò le spalle alla densa folla di maghi e streghe ormai formatasi davanti a loro e ne approfittò per incamminarsi verso l'uscita, allontanandosi da occhi indiscreti e amici, prima lentamente per ritrovarsi a correre a perdifiato.

Era in una piccola radura della Foresta Proibita adesso, i polmoni bruciavano, le mani posate sulle ginocchia per lo sforzo erano piene di piccoli graffi, mentre gli occhi erano densi di lacrime incapaci di cadere. Fu in quel momento che si accorse della scopa dimenticata da chissà chi ai limiti del piccolo spazio.

Hermione odiava volare, ma la rabbia che provava in quel momento e la voglia di scappare da quel luogo le diedero la forza di montare su quell'attrezzo infernale e spiccare il volo. Oltrepassò le cime degli alberi, stabilizzò il volo e si allontanò, solo in quel momento si sentì libera ed iniziò a piangere. Pianse per tutto, per i morti, per la felicità, per la stanchezza, per la libertà.

Si rese conto della direzione che aveva preso solo quando atterrò in un vialetto familiare. Gettò la scopa lontano e si incamminò verso la porta bianca che aveva davanti, il dito teso verso il campanello e solo allora ricordò di essere sola. Nessuno le avrebbe aperto, aveva oblivato i suoi genitori prima di partire e non aveva nessun altro che loro. Solo il passaggio di una macchina strombazzante poco distante le impedì di nuovo di cedere alle lacrime, prese la chiave abitualmente nascosta dentro il vaso di piante succulente ed entrò.

Il buio e il silenzio l'avvolgevano, fece un passo in avanti ed urtò qualcosa sul pavimento, continuò a camminare, sentiva sotto i suoi piedi quella che ricordava essere una soffice moquette scricchiolare. A tentoni riuscì a premere l'interruttore della luce. Lo spettacolo che le si parò davanti era raccapricciante: il vaso di cristallo che aveva sempre fatto parte dell'ingresso era in mille pezzi sul pavimento, il mobile su cui poggiava aveva le ante divelte, i cassetti rimossi e il loro contenuto sparpagliato. Erano arrivanti fino a lì.

Nel perlustrare lo spazio intorno a lei fu sorpresa dalla sua immagine nello specchio incrinato poco distante. Era dimagrita, gli abiti logori le ricadevano flosciamente sul corpo e un livido le stava prendendo forma sullo zigomo. Ma non era quello a trattenerla imbambolata davanti al suo riflesso. Lo sguardo avvilito e spento della ragazza che aveva di fronte non le apparteneva, eppure la stava sopraffacendo, contribuiva ad aprire la voragine che si sentiva al posto del cuore. Senza rendersene conto si era avvicinata ed aveva poggiato i palmi sulla lastra fredda, adesso anche la fronte, stava tremando. Stavolta le lacrime caddero lente, e per la prima volta dopo tanto tempo si fermò a riprendere fiato.

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