Parte quinta

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“Tempo perso!” Redson era frustrato. “Ore buttate via, praticamente! E non si è nemmeno ammazzato per questa qui!” Tornò a casa e subito andò a fumarsi una sigaretta. Diede un’occhiata a Bethnal Street: la gente passava ignara, i turisti si accalcavano per prendere i treni ed andare in centro, magari a bere, a divertirsi.

E lui, il detective Adam Redson, era lì! Costretto ad indagare in un caso di suicidio, che solo inizialmente si era rivelato interessante, ma ora, stava risultando estremamente stucchevole.  “Forse non avrei dovuto accettarlo! Mi ha già seccato! Perché si è ammazzato proprio qui? Perché è toccato proprio a me?” Avrebbe voluto indagare su altro: quei casi di killer seriali tipici delle serie TV, magari, sì; quegli omicidi per problemi legati alla droga; quei pericolosi ed eccitanti pestaggi che avvenivano fra membri della criminalità organizzata. Era questo ciò che si aspettava quando aveva deciso di intraprendere la strada dell’investigazione; di certo non pensava che si sarebbe trovato ad inseguire le ragazze di cui un giovane depresso si era invaghito. 

“Martha dopotutto ha ragione!” pensò “Vogliono tutti la stessa cosa. Ma…Perché? Non aveva senso ammazzarsi…Eppure…” Il detective tornò dentro: si stava ormai facendo sera. Cenò e si recò nel suo studio. Jules gli aveva inviato un’e-mail. Aveva scritto che erano finalmente riusciti a convincere i genitori del morto ad eseguire l’autopsia e che l’indomani avrebbero ottenuto i risultati dell’analisi.  Redson ringraziò l’ispettore ed iniziò a redarre il resoconto dell’incontro con Elisa, marcando il fatto che, nonostante il suo impegno, non fosse riuscito ad ottenere alcuna informazione davvero rilevante, se non il nome di un’altra ragazza. Era punto e a capo. Forse avrebbe dovuto incontrare molte altre persone prima di giungere ad una conclusione plausibile e sensata circa le ragioni della morte di Ernest Wight. Inviata la mail, andò a dormire, nonostante fosse abbastanza preso: avrebbe iniziato a lavorare subito il giorno dopo. 

Redson si era svegliato da pochi minuti quando ricevette una chiamata dalla stazione di polizia di Bethnal Green, pensò che avessero scoperto qualcosa di rilevante durante l’autopsia. Rispose:” Qui Redson!” “Signor Redson, qui in centrale c’è una ragazza che dice di essere preoccupata per le condizioni di Ernest Wight. Evidentemente non sa cose è successo. Per favore, si sbrighi!” “Arrivo!”. In pochi minuti, arrivò alla centrale. A quell’ora all’interno non c’era nessuno. Oltrepassò velocemente l’ingresso, e si diresse nella sala d’aspetto, dove la ragazza e l’agente che l’aveva telefonato dovevano essere ad attenderlo. Entrato in sala, infatti, un poliziotto era lì, con una ragazza. La guardò: i capelli neri tutti disordinati, gli occhi grigi e lucidi lasciavano trasparire una certa agonia, il viso era rigato di lacrime, le guance ed il naso rossi. Si stava continuamente mordendo le labbra. L’agente, visto Redson, lo salutò con un cenno e disse: “Io torno in ufficio. Buon lavoro.” E se ne andò. 

Non appena ebbe lasciato la stanza, la ragazza si avventò verso Redson e gli urlò contro, piangendo:” Si è ucciso? Si è ucciso? Io sono venuta qui perché ero preoccupata per lui! E si è ucciso! Ingrato, stupido!” “Stia calma, tanto per incominciare. Non siamo a scuola di teatro. Questa è una stazione di polizia! Lei si chiama?” “Roxanne Truffaut, sono una compagna di corso di Ernest. Redson la guardò con aria interrogativa:” Mi spieghi il motivo della sua preoccupazione, allora.” “Ecco…Quasi una settimana fa, Ernest ed io ci siamo incontrati ed abbiamo avuto un litigi, al termine del quale è corso via. Mi ha detto che avrebbe fatto qualcosa di folle…Ed è morto! Morto, capisce?!” La ragazza porse le mani al detective, come se volesse farsi ammanettare, ed aggiunse:” Sono stata io! La colpa è mia! Io l’ho ucciso!” Redson tossì. “Signorina Truffaut, la prego! Io l’avrei chiamata proprio stamattina per parlarle ed interrogarla circa il suo rapporto con Wight. Quindi, per favore, con molta calma, mi racconti della sua relazione col ragazzo…” 
Roxanne respirò profondamente, per provare a tranquillizzarsi, ed iniziò:” Lo conobbi ad Ottobre dell’anno passato. Entrammo in confidenza da subito: era abbastanza freddo e cupo, ma mi dava molte attenzioni. Dopo alcuni mesi capii che si era preso una cotta per me- non che io fossi una persona degna di alcuna attenzione da parte sua, per carità. E così, il giorno dell’equinozio di primavera, mi invitò ad uscire con lui...” La ragazza si interruppe e scoppiò in un fragoroso pianto. “Ed è tutta colpa mia! Gli ho mentito!” Molto seccato, Redson la spronò ancora a continuare:” Va bene, va bene! E cosa accadde poi?” Io…Gli dissi di sì, ma poi…Beh, non mi piaceva, era così freddo, così distaccato, ripetitivo, talvolta... E alla fine, nonostante la sua insistenza, non gli risposi più. Lo vede che è colpa mia, signor detective? E da quel momento non parlammo più, finchè, sei giorni fa, ci incontrammo per caso a Leicester Square, mentre stavo facendo shopping.” “Mi racconti gli avvenimenti di quella giornata…”

Roxanne aveva incontrato Ernest in un negozio di manga, mentre cercava un regalo per il compleanno di una sua amica. Dopo averla salutata con un sorriso smagliante e terminato gli acquisti, le aveva chiesto di andare a farsi un giro con lui. Non avendo scuse per andar via, era stata costretta ad accettare. Subito, e senza giri di parole, Ernest le aveva chiesto perché non avesse più risposto al suo invito di alcuni mesi prima. “Ho dimenticato” aveva detto lei, cercando di essere quanto più evasiva possibile. Ernest l’aveva guardata molto contrariato, anche se continuava a sorridere: “Eh…Ma tu studi psicologia! Sai benissimo che zio Sigmund affermava che noi non dimentichiamo le cose per caso. Ci deve essere una motivazione, cara mia!” La ragazza iniziò a pensare che avesse già programmato tutto ciò che lei avrebbe detto ed annuì. “Andiamo in un cafè, Roxanne, ti pago la colazione, su!” 

Inizialmente aveva rifiutato, ma il ragazzo stava insisendo così tanto da costringerla ad andare con lui. Avevano preso un tavolino a Starbucks lì vicino. Dopo essersi accomodati, Ernest le aveva chiesto:” Allora, perché hai dimenticato?” “Forse…Perché…Oh…Non lo so per certo! Dovrai dirmelo tu!” Ci fu un sospiro da parte del ragazzo. “Avanti…Pensi che ti avrei detto qualcosa di spiacevole?” “Beh, non esattamente spiacevole…” “E cosa, allora?” Roxanne non sapeva cosa dire. Tacque. Allora, aveva proseguito Ernest:” Ma è ovvio!” alzò la voce “Io, Ernest Wight, mi sono innamorato di te! Oh, quale triste destino ti è toccato, oh, povera sciagurata! Immagino che ora mi dirai che non ne avevi idea!” Alcuni clienti si erano voltati per lanciare delle occhiate torve al ragazzo, che si era alzato e stava girando intorno al suo tavolo. Roxanne, sconvolta da quanto aveva sentito-Ernest, infatti, più e più volte le aveva detto delle sue difficoltà ad approcciarsi con le ragazze- prese coraggio ed ammise la sua verità:” No, ecco, io lo sapevo. Lo sapevo da sempre. Ma sai, purtroppo, queste cose non sono sempre corrisposte, non vanno sempre come vuoi tu… Ed io, non volevo arrecarti la tristezza di un rifiuto! Ti ho sempre visto come una persona molto sensibile, mai avrei potuto prevedere la tua reazione… Così ho deciso di non farti sapere più nulla, di ignorarti.” Dopo aver bevuto un sorso al suo caffè americano, aveva concluso il suo pensiero, aggiungendo:” A volte, la gente merita più della verità.” Sentito ciò, Ernest si era fermato e l’aveva squadrata, si era seduto ed aveva sorriso, con aria innocente:” Ah, capisco!” Aveva iniziato ad applaudire ed alzata nuovamente la voce, disse:” Signore e signori! Avete sentito, vero? Oggi, in questo Starbucks è stato formulato un aforisma degno di Oscar Wilde! Incidete a caratteri d’oro nelle vostre abitazioni:” A volte, la gente si merità più della verità!” e sarete tutti più saggi. Come avete fatto a non pensarci prima?” “Smettila, imbecille! Hai idea del casino che stai facendo?” In seguito, Ernest si era calmato. “Va bene, va bene. E quindi…La tua immeritata verità è che non sono degno nemmeno di un rifiuto?” “No! Solo che non volevo offenderti!” “Oh, già, che grave offesa! Ma sarebbe stato un rifiuto come altri! Pensavi che mi sarei ammazzato! Per te?”

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