Tutto ciò che ci è possibile fare quando piove, è lasciare che piova.
Ricordo di aver letto questa frase in un caldo giorno di fine febbraio, uno di quelli in cui una prematura primavera sembra soffocare l'inverno in un tiepido e confortevole abbraccio. Stavo cercando su internet un po' d'ispirazione per scrivere, qualcosa in grado di scaturire in me un moto di creatività. L'erba del giardino era già costellata di quei curiosi e selvatici fiorellini viola, che io sin da piccolo ho sempre associato al termine dell'inverno, e il sole carezzava con dolcezza la mia pelle tiepida. I sospiri del vento creavano un contrasto davvero piacevole, se affiancati alle carezze del sole. Tenevo in mano un libro spesso - Delitto e castigo -, che mi ero prefissato di leggere un po' tutti i giorni per coltivare nuovamente la mia accattonata passione per la lettura. Era una bella giornata.
Ciononostante, non potei fare a meno di lasciarmi invadere da uno scomodo sentimento di alienazione. Quelle dolci coccole della natura mi parvero strane, insolite, e ci misi poco a comprendere che quest'impressione era dovuta alla mia poca familiarità con ciò che è dinamico. Una creatura che tanto lentamente si è allontanata dal concetto di "umano" non può che trovare bizzarra una sensazione tanto gioviale. Non ricordavo l'ultima volta che mi era capitato di uscire all'aria aperta e piantare effettivamente le radici dei miei piedi al suolo, godendomi la presenza della vita stessa.
Quella frase che lessi per caso su internet mi colse in flagrante. La trovai fastidiosamente adatta alla mia condizione mentale. Finisco sempre per portare all'estremo aforismi del genere, applicandoli alla mia persona e mutando, purtroppo, il loro messaggio positivo in un groviglio di pensieri tossici. Corrompo sempre tutto ciò che tocco, quasi ci fossi nato io, con il talento di rovinare ciò che è sano.
Tutto ciò che ci è possibile fare quando piove, è lasciare che piova. Chi siamo noi per fermare e deviare il corso della presenza onnipotente per eccellenza ch'è la natura, nella sua forma originaria? Nessuno. Non siamo altro che insulsi pedoni che si illudono di essere re e regine in una tavola di scacchi, stolti esaltati per gli avvenimenti più futili. Un misero pallino nell'immensa superficie del mondo, una fioca stella appesa nel cielo notturno, una minuscola componente del flusso dell'universo. Niente di più.
Abbassai lo sguardo verso i fiori del giardino. Illuminati anch'essi dai raggi solari, ondeggiavano con dolcezza a destra e a sinistra, mossi dal labile vento. Risplendevano di luce gialla; e mi chiesi se anche io, visto dall'esterno, sembrassi risplendere di quella vivida luce. Mestamente, ne dubitai. Era improbabile - no, anzi, che dico: impossibile. Anche una persona che non mi conosceva, che mai in vita sua mi aveva visto, sarebbe stata in grado di percepire l'aura di insofferenza emanata dalla mia figura. Non riuscivo proprio a starci, in questo mondo. Non riuscivo e basta.
Ci avevo provato, qualche volta. Dico davvero: in un paio di occasioni, mi ero persino convinto di esserci riuscito. Inutile dire che si trattava solo di un'effimera illusione; un'oasi nel mezzo del deserto. Di provare a entrare a far parte del mondo, dunque, ne avevo perso la voglia. Come conseguenza, che altro potevo fare se non rimanere fisso, statico nella dinamicità dell'universo? Nessuno aveva la voglia o l'intenzione di mozzare il tronco di un albero decrepito radicato nel terreno di un giardino fiorito, quando egli non dava fastidio quasi a nessuno. Non ve n'era motivo di farlo; e un albero, impotente com'è, mica può sradicarsi da solo.
A quei pochi a cui quel tronco dava fastidio, invece, non importava; anzi. Cercavano sempre di infondergli la linfa vitale nell'alburno, tentando disperatamente di far rinascere almeno un paio di foglie sui suoi rami spogli. Gli iniettavano la vita con una flebo di parole. Ma sembravano non capire, non comprendere, non concepire che quella linfa non era compatibile con il suo organismo; che per quanto tentassero, quella veniva inevitabilmente rigettata e vomitata fuori. La vita non è compatibile con tutti gli organismi che sanno respirare. Ce ne sono alcuni che solo quello sanno fare. Respirano e basta. Esistono. E mi appare scontato dire che io ritengo di far parte di quest'ultima categoria.
Non mi sentivo un essere umano. In mezzo a quella radura in fiore, ero più simile a un albero morto che a una vera e propria persona viva. Non mi sentivo tale, non ero tale: quel senso di alienazione proprio non ne voleva sapere di abbandonare il mio animo.
Mi pareva di sperimentare quanto sia grande l'infelicità di essere vivi. Pure io, Kazuko. Pure io.
Certe persone hanno troppo un buon cuore. Non solo non si arrendono di fronte alle proprie avversità, ma tentano persino di aiutare gli altri nella loro battaglia. Come potevo però dir loro che io, la mia battaglia, non la volevo combattere? Se avessi detto una tale vigliaccheria, temevo si sarebbe aperto un divario incolmabile tra me e l'interlocutore, una spaccatura fra due animi di natura opposta. Combattere implica fatica. E io, di far fatica, proprio non ne avevo voglia. Impassibile sotto ad una tale tempesta, tutto ciò che avrei voluto fare era lasciar che piovesse. È ciò che desidero fare tutt'ora. La situazione non è cambiata. In fondo, sono passati solo un paio di anni da quando uscii nel giardino di casa mia.
Tutto ciò che ci è possibile fare quando piove, è lasciare che piova.
Non tutti la pensano in questo modo. Tante persone a me care, ad esempio (quelle che cercano tutt'ora di ficcarmi la vita nelle vene), trovano che quando piove, bisogna cercare riparo. Non bisogna starsene là, fermi sotto il temporale, a sperare di morire di annegamento o di asfissia. Bisogna correre via, entrare in casa, cambiarsi i vestiti fradici e riscaldarsi di fronte ad una stufa. Poi, solo quando ha finito di piovere si può tornare all'aria aperta. In alternativa, ci si può sempre portare un ombrello nello zaino per proteggersi dalle avversità. Un bagaglio di esperienze che possano insegnarci ad affrontare le intemperie.
A me però la pioggia è sempre piaciuta. Ho sempre trovato gradevole l'infrangersi delle gocce contro la mia pelle, appesantendomi i vestiti e alleggerendomi il cuore. È il mio habitat naturale. Una malinconica goccia d'acqua sporca che viaggia assieme ad altre gocce torbide, intrise del fumo della società. Sto bene, quando sto male. Mi sento a mio agio. Quando sto bene mi sento strano. Come se quella gioia non m'appartenesse; come se non fosse, appunto, compatibile con il mio essere. Forse è proprio con questo che s'intende la squalifica come essere umano. L'impressione di una sbagliata felicità, una segregazione esistenziale, l'incapacità di prendere attivamente parte ai processi umani. Un reietto, generico e assoluto in tutto il suo avvenire.
Non ricordo bene cosa successe dopo. Nulla di rilevante, merito di nota. Sono rientrato in casa, ho posato il libro che tenevo in mano sul tavolo della cucina, ho bevuto dell'acqua e ho passato le due ore successive a perdere tempo. Routine. Nulla di eclatante. Non so che dirti, Rod'ja; tu hai detto prima che l'essere umano è un essere vigliacco che si abitua a tutto, e poi ti sei contraddetto affermando che è l'opposto, vittima dei pregiudizi e di tutte le paure che ci hanno messo in testa. Io trovo soltanto che generalizzare sia sbagliato. Ci sono esseri umani risoluti ed esseri umani vigliacchi. Forse non sarò umano, ma vigliacco lo sono di certo. Mi abituo sempre a tutto, io. Questo è innegabile.
Gli esseri umani non soggiacciono agli altri esseri umani. Però soggiacciono alla vita, Yōzō, e tu questo lo sai meglio di me.
Delitto e castigo. Il mio delitto è d'esser nato così passivo nei confronti del tutto e il mio castigo è il temporale che mi sta piovendo addosso. Il delitto degli altri è cercare di infondermi a forza la vita nelle vene e il loro castigo è vedermi appassire ogni giorno di più, rigettando quella linfa. Ti prego, non ti arrabbiare con me, Rod'ja. Mica posso farci qualcosa, se oggi assomiglio ad un tronco morto più di quanto gli assomigliassi due anni fa. L'unica cosa che posso dirti è che questo tronco sta imparando a recitare, e col tempo sono certo che diventerà un ottimo attore.
Dicono che la pappa reale aiuti i nevrastenici. Chissà se si tratta solo di un breve esaurimento nervoso o se ci son nato, io, con la nevrastenia.
Ora sta piovendo. Le gocce di pioggia non le percepisco neanche più. Essendo io stesso una goccia, non sarei mai in grado di distinguere il mio essere da un agente esterno. L'ho detto: alla fine mi abituo a tutto, io.
Sta piovendo. E tutto ciò che mi è possibile fare quando piove, è lasciare che piova.
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LA LUNA SI SPEGNE, e altri racconti
Short Story❝ La figlia dell'autunno amava il tramonto invernale. La sua fanciullezza, dopotutto, era tramontata proprio in quel periodo. ❞ ▬▬▬▬▬ 𝕴𝖓𝖘𝖎𝖊𝖒𝖊 𝖉𝖎 𝖗𝖆𝖈𝖈𝖔𝖓𝖙𝖎. : ̗̀➛ Insieme di racconti indipendenti l'uno dall'altro, composti da un norma...