2 - Mancanze

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Haiti

Ippazio si gettò sulla piccola branda che gli faceva da letto, sfinito al punto da non riuscire neppure a disfare le lenzuola. Era ad Haiti da poco più di due settimane, eppure in quel luogo aveva già visto più sofferenza che in tutta la sua vita. Il violento terremoto di qualche tempo prima si era lasciato dietro una infinita scia di desolazione e morte: innumerevoli vite erano state spezzate, sogni e speranze di chi era rimasto andati distrutti. Sembrava lo scenario di un film apocalittico: la gran parte degli edifici erano crollati, molti erano comunque inaccessibili, gli ospedali al collasso ormai da troppo tempo. C'era chi tra le macerie cercava ancora i propri cari, chi era rimasto senza un tetto sopra la testa, chi aveva perso anche quel poco che possedeva, chi avrebbe portato per sempre sul proprio corpo i segni di quella tragedia. Si sentiva minuscolo di fronte a tutto quel dolore, senza dubbio un privilegiato, ed era per questo che, ogni giorno, si faceva in quattro per essere di aiuto a più persone possibili: si occupava di distribuire pasti, coperte, beni di prima necessità, praticava le medicazioni, talvolta capitava anche si unisse alle squadre per la ricerca dei dispersi. La gratitudine che leggeva negli occhi delle persone a cui riusciva a dare una mano gli scaldava il cuore, ed era l'unica cosa che lo facesse andare avanti, che gli consentisse di non rimanere schiacciato dal peso di quella situazione. Qualche ora prima, durante il pranzo, aveva giocato assieme ad un bambino, costruendo per lui una pista per macchinine di fortuna che sembrava averlo reso l'esserino più felice del mondo: ecco, quegli occhi contenti era certo non li avrebbe mai più dimenticati. Non si era mai sentito utile come nel regalare a quel piccolo un sano momento di normalità, la stessa che gli era stata strappata in maniera tanto brutale ed improvvisa.

Certo, era difficile, non lo negava: quando si fermava, quando rimaneva da solo, il dolore di quelle persone sembrava piovergli tutto addosso, e persino addormentarsi diventava un'impresa. Stava succedendo anche quella sera: continuava a ripetersi che avrebbe dovuto fare di più, che mentre lui tentava di prendere sonno chissà quanti lì fuori avevano bisogno del suo aiuto. In cuor suo, però, sapeva che quel senso di colpa non aveva ragione di esistere: stava già facendo tutto il possibile, e, senza quelle poche ore di riposo che provava a concedersi, gli sarebbero certamente mancate le forze durante il giorno. Quindi, in quello che ormai era diventato una sorta di rituale notturno, provò a distrarsi, facendo vagare la sua mente alla ricerca di qualcosa che gli desse serenità, che lo aiutasse ad evadere da quella realtà per costruirsene, almeno momentaneamente, una più spensierata. Una chioma rossa si fece prepotentemente strada tra i suoi pensieri, facendolo sorridere all'istante. Era sempre così: ogni volta che si imponeva di pensare a qualcosa che lo rendesse felice, la sua dottoressa arrivava a prendersi la scena, con quell'esuberanza che aveva anche nella vita di tutti i giorni. Ippazio si immaginava di essere in auto con lei, e di ridere alle sue battute; o, ancora, di trovarsi nel suo ufficio, e di osservarla mentre, con quella sua espressione corrucciata ma bellissima, tentava di trovare il bandolo della matassa in un caso complicato. E magari fosse stato così avveduto da fermare qui il flusso dei suoi pensieri, magari si fosse trattato di una cosa così innocente: la verità era che, in quelle notti che parevano interminabili, il maresciallo amava soprattutto fantasticare su una quotidianità che non avevano, fatta di una casa in comune, traguardi condivisi, infiniti momenti di tenerezza e passione. Quante volte aveva pensato a come sarebbe stato bello addormentarsi abbracciato a lei, dopo averci fatto l'amore; condividere ogni momento, da un semplice pranzo al volo ad un film sul divano, consapevole che niente di quanto vissuto con lei avrebbe mai potuto essere banale, noioso, ordinario.

A volte Ippazio si chiedeva se il signor De Ruggeri fosse consapevole della fortuna che gli era capitata: non riusciva ad immaginare niente di più felice di una vita trascorsa al fianco di Imma, con la possibilità di vedere il mondo attraverso i suoi occhi, e il privilegio di starle accanto, ascoltarla, viverla nella sua quotidianità, godere delle sue attenzioni, dei suoi baci, delle sue carezze. Era geloso di quell'uomo, della sua vita, anche se sapeva di non averne alcun diritto, perché se c'era qualcuno di troppo, in tutta quella situazione, se c'era un intruso, beh, di certo non era lui. Ippazio ricordava ancora quel giorno di qualche mese prima, quando li aveva visti assieme: era seduto al tavolo di un bar con un collega, e Imma e il marito passavano di lì, senza però accorgersi di lui. Camminavano, abbracciati, e il signor De Ruggeri doveva aver fatto una battuta perché lei rideva di gusto, uno di quei sorrisi sinceri e infantili che in procura non regalava mai a nessuno. Allora fu come ricevere un pugno in pieno stomaco: era da poco tornato da Roma, dove aveva realizzato di provare per la dottoressa qualcosa che andava ben oltre la semplice stima professionale, e subito era stato costretto a fare i conti con la realtà, quella in cui lei era felicemente sposata, innamorata del marito e mai, mai, gli avrebbe preferito un ragazzino senza arte né parte.

Don't give me those eyes - [Imma e Calogiuri] Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora