Mercoledì 14 gennaio 2015, ore 9.02, Londra, studio di psicologia della Dottoressa Clarke.
Era una brutta giornata.
No, a voler essere più precisi era una pessima giornata: Harry abusava spesso dei superlativi, perché trovava fossero didascalici.
Aveva tracciato l'ennesima croce rossa sul calendario, con la mano tremante e il fiato corto, dopo aver rovesciato il contenuto rovente di una corpulenta tazza colma di latay sui Levi's nuovi di zecca.
Non toccava un goccio di alcol da ottantuno giorni, quindici minuti e trenta secondi. Un'infinità di tempo, secondo il suo punto di vista.
Dopo il primo mese sarebbe stato più semplice: così gli avevano riferito. Cominciava a credere che la gente dicesse solo una valanga di idiozie.
Non era più semplice. Non era più semplice, quando giungeva la sera e si ritrovava da solo, privato di qualsiasi distrazione che potesse dissuaderlo dal ricascare nel vizio che per lui era estasi e pena, tutto insieme. Non era più semplice, quando suo padre gli telefonava e inventava la milionesima giustificazione che lo esonerasse dalla condanna di non essere il padre presente e affettuoso che lui sentiva di meritare. Non era più semplice, quando si addormentava pervaso dalla consapevolezza di non possedere una virtù fondamentale alla sua condizione di essere umano: la libertà. Non era semplice, quando si svegliava in quello stesso letto e realizzava di piombare dentro un altro incubo, però a occhi aperti.
Non era più semplice. Per questo aveva sentito il bisogno di incontrare Ariane, quella mattina, sebbene fosse fuori programma e avesse altri impegni.
Se c'era una cosa che aveva imparato, nel corso degli ultimi ottantuno giorni, era di dover chiedere aiuto, qualora ne sentisse l'esigenza. E lui, quel giorno, avvertiva l'estremo bisogno di lasciarsi aiutare. Era debole. Sì, era debole, ma anche abbastanza forte da reagire.
«Grazie per aver accettato di vedermi» le disse, sistemandosi sulla poltroncina color giallo ocra per schiacciare la fiancata di una Converse con la suola dell'altra.
«Non devi continuare a ripeterlo, Harry» rispose Ariane, ingoiando quello che era forse il decimo o quindicesimo sorso di caffè. Indossava ancora il pigiama di seta, e una banda dei suoi capelli si era incurvata verso l'alto, isolandosi dal resto della chioma. «Va pure avanti. Dicevi di aver quasi avuto una ricaduta, ieri».
«Sì...» confermò, attraccando lo sguardo all'abat-jour disposto sulla scrivania, dietro la quale la donna sedeva. «Però non l'ho fatto» si preoccupò di aggiungere, sottolineando senza volerlo l'inflessione criminale nel tono di voce.
«E questo come ti fa sentire?»
«Una merda» ammise, senza pentimenti. Non era a disagio. Sapeva di poter esprimersi nel pieno delle proprie necessità, quando interloquiva con la Dottoressa Clarke. Dopotutto, questa sfoggiava le macchie di dentifricio spruzzate sul colletto indaco del pigiama, come fossero un trofeo, e non se ne vergognava affatto.
«E con la gestione delle emozioni come sta procedendo, invece?»
«Doppia merda» replicò, unendo i pugni sopra le cosce accavallate. «Il mio umore è persino meno costante della pazienza di Louis, capisce che intendo?»
L'altra annuì soffiando la risata dalle narici. «Per esempio?»
«Per esempio, passo dall'essere tranquillo all'incazzarmi con mia madre per il solo fatto che esista. L'altro giorno ho dato di matto perché i volumi nella mia libreria non erano sistemati in ordine cronologico. E sa qual è la parte più assurda?»
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Somewhere in Neverland [Larry Stylinson]
FanfictionCorre l'anno 2015, gli One Direction dominano la piazza musicale. Neverland è un software di ultima generazione, una realtà alternativa che consente agli acquirenti di interagire con una versione simulata di Harry, Louis, Niall, Liam e Zayn. A Harry...