capitolo 2: la paura

27 0 0
                                    


la musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c'è fuori
-Johan Sebastian Bach

Ricordo che quand'ero piccola provavo per il mio maestro un timore che a ripensarci ora mi fa sorridere. Non era affatto un timore reverenziale o dovuto al fatto che fosse burbero e scontroso, il mio maestro era l'esatto opposto: gentile e scherzoso, aveva sempre pronte delle battute che ero troppo piccola per capire e amava scherzare; ma io non avevo paura di lui per una ragione concreta: ero semplicemente spaventata da lui, come potevo aver paura di chiunque quando ero piccola. A causa di questa paura per anni non gli rivolsi la parola, se non per dire si e no rispondendo alle sue domande. A causa di quella paura era impossibile per me fare solfeggio in presenza di altri musicisti che frequentavano lezione di strumento, perché la mia voce era sempre troppo bassa e la musica degli strumenti mi sovrastava così tanto da coprirla completamente. A causa di quella paura ho perduto ben dieci anni del rapporto che avrei potuto costruire con il mio maestro.

Quando ero piccola il mio maestro era un'altro.
Ricordo che non capivo la maggior parte delle cose che mi diceva, spesso parlava in dialetto ed io faticavo a cogliere ciò che mi stava dicendo, oppure parlava come parlano gli adulti, ma io ero solo una bambina; mi chiedeva sempre, dopo aver pronunciato un certo detto dialettale, "sai cosa vuol dire?" oppure "lo conosci?" ed io, troppo intimorita per produrre un qualsiasi suono, mi limitavo a scuotere la testa e allora lui, paziente ogni volta, mi spiegava la morale di tale detto o modo di dire. Non li ricordo tutti, ma il suo preferito è indimenticabile; "l'imbecillagine umana dilaga a macchia d'olio".
Non ho mai capito cosa volesse dire, nemmeno ora, ma non ho mai dimenticato il modo in cui era lui a dirlo.

Ricordo che all'inizio faticò ad imparare il mio nome, mi chiedeva spesso di ripeterglielo e, alla fine quando l'ebbe imparato, mi chiamava sempre con un vezzeggiativo. Non ha mai smesso di chiamarmi in tal modo. Frequenti erano le battute quando, ormai grande, continuava a chiamarmi così per affetto e da solo, si diceva: "fra un po' ti sposi ed io ti chiamo ancora *****uccia". ma per lui il mio nome era quello e sarò sincera, mi si sarebbe spezzato il cuore il giorno che avesse smesso di chiamarmi così.

Io invece non ricordo quando ho iniziato a parlare di lui come il mio maestro. Come si potrebbe definire un amico o un parente. Non ricordo quando mi è diventato così caro da non riuscire a collocarlo come familiare, ma nemmeno come qualcuno di distante.

Quando ero piccola il mio maestro era un'altro: più severo, più rigido, più freddo anche. O almeno così lo vedevo io. Non so se siano stati gli anni a cambiare il nostro rapporto o se sia stato il fatto che con il tempo lui si sia ammorbidito. Di sicuro con il tempo, io ho imparato a capirlo.
Iniziò ad insegnarmi la musica insegnandomi le figure. Io frequentavo ancora la materna e non avevo idea di cosa ci fosse oltre l'addizione e la sottrazione ed improvvisamente mi ritrovai a confrontarmi con questi numeri separati da una linea orizzontale. No, non capì affatto cosa fossero all'epoca, capii però il disegno della torta che il mio maestro vi fece affianco per farmi capire:
una torta con quattro fette = una nota a cerchio, bianca
una torta con tre fette = una nota a cerchio, bianca, con un gambo come quello dei fiori e un piccolo puntino vicino
una torta con due fette = una nota a cerchio, bianca, con il gambo
una torta con una sola fetta = una nota con il gambo, nera
e per ora mi bastava conoscere questo.
qualche mese più tardi mi avrebbe spiegato, con una torta di otto pezzi, una nota nera con un gambo ed una piccola coda, poi quella con due, tre e quattro code.
Mi spiegò il pentagramma dicendomi che era come il rigo su cui scrivevo a scuola, ma invece di avete due spazi ne aveva quattro. Ricordo, perché ce l'ho ancora conservato, che disegnò la mia mano su un foglio e mi disse: "le tue dita sono i righi, la piccola valle fra le dita sono gli spazi" e scrisse tutte le note sulla mia mano disegnata: le dita erano do, mi, sol, si, re, le piccole valli erano re, fa, la, do; poi per farmi capire fece una dimostrazione pratica che io ripetei per mesi, nell'attesa di imparare davvero a leggerle sul pentagramma: prese la mia mano e partendo la pollice percorse su e giù le mie dita e gli spazi fra loro ripetendo: "do, re, mi, fa, sol, la, si, do, re".
Restai sul disegno di quella torta e di quella mano per circa un mese, finché non seppi ripetergli entrambi alla perfezione. Ricordo che riuscivo soltanto a pensare "che noia questa musica quando posso suonare quella canzone che mi piace tanto?", che poi quella canzone che mi piace tanto, allora come oggi, era "Per Elisa" di Beethoven. ingenua io che avrei studiato otto anni prima che il mio maestro mi proponesse di studiarla e che, finalmente dopo averci gettato tutto il mio sangue, decisi che non l'avrei mai più suonata, perché le mie mani avevano rovinato la composizione che mi aveva fatto amare la musica e il mio strumento.
A volte succede, che non siamo mai soddisfatti di ciò che facciamo.

Dopo aver imparato meglio del mio nome la torta e le note sulla mia mano, iniziarono infinite lezioni di bella copia per imparare dove fossero le note sul pentagramma. Scrivevo pazientemente e con attenzione tutte le note da do a do, prima con la chiave di violino e poi con quella di basso. E che agonia quella chiave di violino! non riuscivo mai a farla bene, ma sopratutto, prima che capissi dove andasse posizionata e perché, il mio maestro era sempre lì a dirmi: "è troppo su" "è troppo giù" ed io, che non comprendevo appieno la sua funzione, continuavo a non campire dove andasse segnato quel benedetto gambo orizzontale.
Quando questa tortura finì, ne iniziò un'altra, forse anche più fine: imparai ad abbinare le note della torta ai numeri separati dalla linea orizzontale.
dovevo ricordarmi che 4/4 significava la nota grande, che 3/4 era quella bianca con il gambo ed il punto, 2/4 quella bianca con il gambo e 1/4 quella nera, anche se questa non la trovavo mai. Poi dovetti capire che 4/4 poteva voler dire anche due note bianche con il gambo, oppure una bianca con il gambo e il punto ed una nera con il gambo, oppure due note bianche con il gambo, o ancora quattro note nere con il gambo. E così anche per tutti gli altri. Credo fosse stato lì che ho capito che la matematica non mi piaceva per nulla. Però quando iniziai a comprendere il meccanismo, mi piacque molto il modo in cui tutto pareva entrare in uno schema ben preciso.
Il mio maestro mi osservava con attenzione e con pazienza mi correggeva ogni volta, rispiegandomi da capo tutto quando non ricordavo qualcosa. Passava alla lezione successiva soltanto quando ero perfettamente in grado di eseguire la precedente, finché non entrai in un ritmo sempre più veloce di nuove cose che entravano nella mia mente e che, a mano a mano, costruivano quel grande castello nella mia testa che in seguito, sempre e soltanto lui, avrebbe riempito di torri, finestre, terrazze e cortili.
Rese la mia mente il più bel castello che si fosse mai visto, e da quando se n'è andato io lo vedo trasformarsi in una rovina.

Un giorno tutto quel leggere e scrivere finì, e quando finì iniziò il ripetere ad alta voce, poi lo scuotere e battere il pugno, poi lo scatto delle dita. Imparai una cosa alla volta: prima il maestro mi faceva leggere le note ad alta voce dal libro, ed io diventavo sempre più veloce. Quando seppi leggerle bene mi insegnò come muovere il braccio; non capivo a cosa servisse, sapevo solo che 4/4 significava che dovevo battere due volte a terra (cioè sulla mia gamba), una sulla mia spalla sinistra e una sulla mia spalla destra; 3/4 significava due volte a terra e una sulla spalla sinistra, 2/4 una volta a terra e una volta sulla spalla sinistra. Imparato a leggere le note e nel frattempo a muovere il braccio: il maestro mi fece vedere come usare le dita. Mi disse che ogni figura nera con il gambo era un dito e che dovevo alternate il pollice e l'indice mentre muovevo il braccio e dicevo le note. All'inizio mi parve l'impresa più difficile mai compiuta, ma dopo qualche mese per me diventò così familiare che, quando mi veniva chiesto di togliere una componente di questa strana e perfetta danza, mi confondevo e sentivo di essere vuota, come se a tutto mancasse una pezzo fondamentale.
Perché infondo è la musica ad essere così: un'insieme perfetto fatto di regole precise, in cui anche ciò che è considerato irregolare, in realtà, rispetta delle regole tutte sue. In musica non si sfugge al rigore, il mio maestro me l'ha insegnato sin da subito e per me, quell'ordine, quel rigore, quei margini da cui non dovevo mai uscire, diventarono un modo per mettere ordine nella mia mente, nella mia vita.
tutte quelle regole e quelle leggi diventarono per me il modo di restare concentrata in tutto ciò che facevo, un modo per focalizzare le mie energie positive, ma sopratutto negative, ed un modo per fuggire via quando tutto diventava troppo pesante. Ciò che per molti era noioso, ridondante ed incomprensibile, per me era diventato il modo in cui potevo essere libera.

Trovai la mia libertà nella strettezza delle regole.

Insomma andai avanti così per ben nove mesi, finché tutte le note, la loro durata e persino il mio maestro, mi diventarono familiari ed amici. Alla fine di quell'anno la pausa estiva mi parve una tortura, il maestro me lo aveva promesso: a settembre mi avrebbe insegnato il pianoforte ed io fremevo dalla voglia di iniziare. aAhimè dovetti aspettare tre mesi, i tre mesi più lunghi di quei miseri sei anni di vita, ma ne valse la pena.

il pianistaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora