Un giorno
Voglio poter raccontare
Di come ho guardato
Il mio maestro
Alla mia prima lezione.Un giorno
Mi piacerebbe raccontare
Dell'emozione
Di quella prima volta
In cui ho toccato la tastiera.Un giorno
Racconterò
Di come non sia mai stata di molte parole
Ma il mio maestro
Abbia sempre capito.Un giorno
Sarà un piacere raccontare
Di come negli anni
Il mio maestro
È diventato un pezzo del mio cuore.Un giorno
Forse piangerò nel raccontare
Di come
Dopo dieci anni
Lui ancora mi chiamava Ilariuccia.Il modo in cui arrivai dal mio maestro fu un caso di fortunate coincidenze e, soltanto molto tempo dopo avrei compreso quanto la mia vita sarebbe stata totalmente diversa se tutti i pezzi non avrebbero trovato il loro posto.
Avevo cinque anni quando decisi di voler studiare pianoforte. Beh, forse non proprio cinque, ma non mi credereste mai se vi dicessi che era già da tempo prima. I fatti sono che poco dopo aver compiuto cinque anni posi la richiesta ai miei genitori, come o perché avessi preso quella decisione in un età così precoce tutt'ora non lo so, e non ricordo nemmeno il modo o l'occasione in cui la mia domanda fu posta, eppure tutto è andato come doveva andare e il destino mi ha portata dove dovevo andare.
Non ricordo quale fu la reazione dei miei genitori a quella richiesta, né tantomeno quando tempo intercorse fra il momento in cui lo chiesi ed il giorno in cui mi portarono per la prima volta dal mio maestro.
Ricordo, per l'appunto, soltanto quel pomeriggio di ottobre in cui, improvvisamente, mi trovavo in una scuola piena di musicisti e strumenti davanti a quest'uomo alto, molto magro e leggermente ingobbito con cui i miei genitori stavano parlando. Avevano infatti l'abitudine di non dirmi nulla quando ero piccola (per la verità non mi hanno mai detto nulla nemmeno quando sono cresciuta) per cui venivo condotta in una serie di situazioni e circostanze che poche volte capivo, e infatti anche quella volta capii tutto soltanto una volta a casa, quando mia madre si degnò di rispondere alle mie domande. Non capii nulla nemmeno di ciò che si erano detti, anche sono sempre stata una bambina con la testa sulle nuvole, costantemente alla ricerca di stimoli e perennemente distratta dal suo presente. Ricordo soltanto che quando tornammo a casa, avendo fatto due più due con l'ambiente in cui mi ero trovata poco prima, chiesi a mia madre: "mamma ma siamo venuti qui a parlare perché voglio suonare il pianoforte?"
la risposta di mia madre fu un'allegro: "si" che mi fece sorridere con tutti i denti che potevo avere a cinque anni.
Più tardi, pressata dalla mia insistente necessità di sapere ciò che ero stata troppo distratta per capire, mia madre mi disse che il maestro aveva detto che ero troppo piccola per iniziare. Non l'avesse mai detto. Quella frase scatenò in me un'incomprensione tale che continuai ad insistere con mia madre affinché mi facesse iniziare quanto prima, subito anzi, non capendo che purtroppo la colpa non era sua.
Io volevo suonare il pianoforte.Per intenderci: non ricordo questa parte, ma nel corso degli anni mia madre mi ha sempre detto che fu la mia petulanza ed il mio rifiuto ad accettare di aspettare qualche anno per cominciare che, a distanza di poco più di una settimana, ci riportarono in quella scuola a parlare nuovamente con il maestro. Ovviamente io continuai a restare all'oscuro della situazione intorno a me perché troppo distratta, purtroppo ho imparato tardi a prestare attenzione. Alla fine mia madre mi disse che il maestro si era convinto grazie alla mia insistenza e che la settimana dopo avrei potuto iniziare. Ero al settimo cielo.
Di quel periodo del mio maestro ricordo le scarpe e le ginocchia. ero sempre stata una bambina alta (così mi dicevano tutti) ma avevo la costante sensazione di essere sovrastata dal mio maestro. Lo vedevo chiaramente soltanto quando eravamo entrambi seduti, faccia faccia, occhiali nei miei occhi e il timore ed il rispetto che m'incuteva ancora li ricordo. Per molto tempo non ho nemmeno saputo come si chiamasse, l'ho scoperto dopo molti anni in effetti, per me era sempre e solo "il Maestro" e tale è rimasto sempre. Non so bene se fu mia madre ad insegnarmi a dargli del voi o se mi limitassi a ripetere il modo in cui lei, e tutti, si rivolgevano a lui, o se abbia iniziato ad utilizzare con lui la forma di cortesia dopo aver appreso della sua esistenza. Il fatto è che anche a distanza di decadi ho sempre continuato a dargli istintivamente del voi, anche quando mi ha chiesto poi di dargli del tu, cosa che con il tempo è diventata quasi comica dato il grado di confidenza che si era sviluppato fra noi: per lui ormai ero un'adulta che si era cresciuto alla stregua di come aveva cresciuto i proprio nipoti e per me lui era diventato parte integrante della mia vita, una specie di modello da cui plasmare chi sarei diventata e un demiurgo da cui lasciarmi plasmare quando ero troppo piccola per farlo da sola. Eppure per me resta sempre il Maestro.
Il mio esordio non fu come avevo sperato.
Per un'intero anno il maestro si rifiutò di farmi mettere mano alla tastiera, ragione per cui per nove mesi vidi soltanto note, chiavi, figure, durate e tempi: freddi pentagrammi da solfeggiare, in sol ed in fa, per imparare a leggere le note; ogni settimana mia madre mi accompagnava dal mio maestro, ci sedevamo alla sua scrivania uno di fronte all'altra e lui mi chiedeva: "cosa avevamo per oggi?" io prendevo il mio libro di solfeggio e lo aprivo alla pagina su cui avevo fatto un'orecchietta per ricordamene, la indicavo al mio maestro che gli dava un breve sguardo e mi faceva cenno di iniziare a solfeggiare. Finché ero piccola lui non aveva una propria copia del libro davanti: si limitava a leggere capovolte sottosopra le note dal mio testo, ancora oggi conservo il ricordo di quanto questa pratica mi affascinasse, ho appreso col tempo la nobile arte del farlo a mia volta, per mera praticità, ma l'ammirazione che ispirava in me ogni volta che con naturalezza faceva qualcosa che di cui io non sognavo nemmeno lontanamente di poterci riuscire è ancora molto vivida in me. Infondo quando vivi di quel linguaggio e le cinque righe, con il loro bizzarro modo di comunicare, diventano la ragione del tuo esistere non c'è verso in cui queste non rappresentino per te una casa.
Ci sono persone a cui non basta una vita per comprendere la musica e apprezzarla, persone per cui una vita non è abbastanza per conoscerla e amarla tutta. E il mio maestro era uno di questi, e ha reso me una di questi.Andò avanti così per molto tempo: io solfeggiavo, solfeggiavo e solfeggiavo. Ero troppo piccola per sapere già cosa fosse studiare o avere dei compiti: era mia madre all'epoca che ogni giorno, quando tornava da lavoro si sedeva vicino a me e mi diceva: "studiamo musica". Non che lei ci capisse qualcosa, ma sapeva che dovevo esercitarmi ogni giorno per poter riuscire a solfeggiare correttamente quei 2/3 esercizi che il mio maestro mi assegnava. All'inizio prendevano molto seriamente questa cosa, poi hanno smesso di farlo, sminuendola, dicendomi che non sarebbe stata la strada giusta da percorrere, ma il mio non era un sogno da bambina: ero semmai una bambina che già sognava come un'adulta.
Con gli anni ed il tempo lo studio, l'esercizio, la disciplina, anche i mal di testa e la tensione cervicale dovuti al troppo tempo trascorso alla tastiera, entrarono a far parte della mia routine e, più i giorni passavano più per me era una piacevole abitudine, così piacevole da lasciarmi addormentata stremata sulla tastiera, su uno spartito da finire, ma sempre con il sorriso quando al mattino mi risvegliato tutta contratta per la posizione scomoda assunta mezza sullo sgabello e mezza china sulla tastiera del pianoforte.
Era la mia vita e non avrei potuto esserne più felice.Insomma questa storia del solfeggio andò avanti per nove mesi: così che alla fine leggevo meglio il pentagramma che i miseri testi che mi facevano leggere all'asilo. Io solfeggiavo e solfeggiavo e a volte, quando mia madre tardava a venirmi a prendere alla scuola, osservavo con estrema attenzione le lezioni degli altri allievi; quasi sempre erano allievi del mio maestro della classe di pianoforte, a volte però capitava di osservare anche qualche altra classe di strumento e vi parrà strano sentirlo, ma ognuno di quegli strumenti mi affascinava in egual misura. Nessuno mai scatenò in me quel desiderio e quel bisogno di suonarlo come il pianoforte, ma ognuno di essi aveva per me una particolare caratteristica attrattiva, che mi spingeva ad analizzarlo in ogni minimo dettaglio e a volerne apprendere sempre di più, sempre di più.
Già allora avevo quella fame di musica che non mi ha mai lasciata per tutta la vita, quella fame, quel bisogno, quel desiderio e quell'amore che sempre, il mio maestro diceva, erano le mie armi migliori: perché tutto quello che non avevo nel talento, nell'orecchio e in quel nonsochè di speciale dei grandi, la mia dedizione ed il mio impegno avrebbero compensato appieno.
L'anno fatto. L'ho fatto. Lo abbiamo fatto, insieme: io, il mio maestro, e l'amore di entrambi per la musica.
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il pianista
Historia Cortala storia di un'insegnante di pianoforte raccontata dalla sua alunna che ha accompagnato nel corso della sua crescita, musicale ma anche umana, tanto da diventare per lei un modello da seguire per tutta la vita