恋の予感 [koi no yokan]
(n.) lit. "premonizione d'amore"; la sensazione che si può avere quando si incontra per la prima volta un'altra persona, che loro due si innamoreranno.
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Mikasa aprì gli occhi stimolati dai raggi del sole, infastidita. Si rigirò tra le coperte e si tirò il piumone fin sopra la testa. Emise qualche verso, e si rannicchiò tutta. Accarezzò il suo corpo nudo, che a contatto con le sue dita fredde rabbrividì, facendole venire la pelle d'oca.
Ella sospirò, e decise di alzarsi dal materasso. Si liberò delle coperte e il suo corpo fu subito investito da una ventata d'aria fredda, che le fece salire la voglia, che represse, di tornarsene a letto.
Corse in bagno e ci si chiuse dentro, per poi accendere l'acqua bollente della vasca da bagno. Si osservò allo specchio in tutta la sua interezza e, nonostante fosse ancora intorpidita, provò a smuovere il suo corpo in mille modi possibili. Riusciva a muoversi, e anche bene.
Prese una bomba da bagno di colore rosso ardente, e si immerse nell'acqua insieme ad essa. Lasciò che il sapone e le polveri le si sgretolassero tra le mani, tingendo l'acqua di un colore tendente a quello di una fragola ancora acerba. Persino il vapore che si librava danzante nell'aria aveva assunto una dolce tinta rosea.
Mikasa allungò un braccio verso il vaso di rose rosse e bianche che stava sulla mensola sopra alla vasca da bagno, ed estrasse uno di quei fiori. Iniziò a staccare i petali uno ad uno, con lentezza, per poi lasciare che cadessero in acqua con la stessa delicatezza di una farfalla bianca che si posa su un glicine.
Ogni petalo, una volta a contatto con l'acqua leggermente schiumata, si muoveva come una tenera barchetta a vela, e andava ad unirsi agli altri petali, creando forme e sagome che nella mente della ragazza cambiavano ad ogni bollicina che scoppiava.
Presto i petali scarlatti di quella rosa terminarono, e Mikasa prese un'altra rosa, la quale era bianca, più bianca di un cumulo di nuvole in una giornata estiva.
I petali bianchi andarono a unirsi a quelli rossi, esattamente come il foulard bianco di Mikasa era volato in una pozza di sangue.
Perché quello era successo, qualche sera prima. Lei, più pura di un mazzolino di margherite, era andata da lui, più sporco del Diavolo.
Perché, per quanto indossasse ogni giorno la maschera della ragazza forte, sadica, pervertita, nel profondo della sua anima lei rimaneva più pura di un bimbo ancora in fasce.
Ackermann Mikasa, quello era il nome della ragazza bianca. Amano Akihiko, quello era il nome del ragazzo rosso.
La ragazza bianca aveva sempre amato la personalità e il carattere dei ragazzi e delle ragazze rosse. Aveva tentato di appropriarsi di quelle caratteristiche, di farle sue, e apparentemente ci era riuscita... apparentemente.
Infatti, la ragazza bianca aveva provato a imitare un carattere rosso, ma senza risultati, perché se anche si colorasse di rosso con la biro, il giorno dopo sbiadiva, e quello dopo ancora scompariva del tutto.
Mikasa si domandò per anni come potesse una ragazza bianca diventare una ragazza rossa. E si era data una specie di risposta... certo, approssimativa, ma comunque una risposta.
Il bianco doveva unirsi al rosso. Un'anima casta si sarebbe dovuta unire ad un'anima sporca.
Sarebbe diventata poi una ragazza rosa, come il vapore danzante? No, si era detta. Perché il rosso era così travolgente che avrebbe accolto il bianco tra le sue braccia e l'avrebbe lasciato annegare tra i meandri del suo color sangue, fino a farlo divenire parte di sé.
Per questo Mikasa aveva cercato un ragazzo rosso. Non vermiglio, non carminio; rosso sangue scarlatto.
E l'aveva trovato. Eccome se l'aveva trovato. Amano Akihiko, così si presentò l'alto ragazzo moro e magro.
Lei era rimasta subito ammaliata da lui. I suoi lunghi capelli mori sembravano come un elegante corvo che se ne stava rintanato nel suo nascondiglio, e le sue iridi rosse le avevano tanto ricordato le rose del suo bagno. La sua pelle era chiara quanto quella di un albino, e sembrava riflettere la luce flebile della luna.
Le era bastato quello sguardo tagliente per far sì che cadesse ai suoi piedi.
E lui ne aveva approfittato, aveva scelto di sfruttare la povera ragazza ingenua a suo vantaggio. Perché quello era lo scopo dei ragazzi rossi.
L'aveva illusa, illusa che insieme sarebbero potuti essere qualcosa, magari due ragazzi rossi che si amavano e rendevano il loro amore passionale come il loro colore.
Ma Mikasa non era una ragazza rossa, certo per tutti era come se lo fosse, ma in realtà era una fragile ragazza bianca che non desiderava altro che prendere il colore del sangue.
E si era lasciata travolgere dal rosso, così che il suo piccolo puntino bianco venisse trascinato via.
I petali ben presto terminarono, e delle rose non rimase altro che un semplice gambo verde e spinoso.
Mikasa sbuffò, non era uno sbuffo di stanchezza, di noia, o di altro. Era uno sbuffo di frustrazione. Quel periodo che per lei era stato una tempesta, l'aveva portata a provare frustrazione per qualsiasi cosa che possa provocare anche solo un minimo di fastidio, come un pelo sul naso.
Chiuse gli occhi e si accasciò nella vasca, abbandonandosi al dolce tepore dell'acqua e alle meravigliose danze del vapore rosa.
Prese un petalo tra le dita e iniziò a giocherellarci, perdendosi in profonde riflessioni filosofiche sulla sua esistenza. Anche queste riflessioni avevano iniziato a farsi più frequenti. Perché esistevano ragazze inutili e bianche come lei? Servivano a qualcosa oltre ad essere strumento di gioco e frutto di divertimento dei ragazzi rossi?
Anzi, le vere domande che la tormentavano erano altre. Perché esistevano i colori? Perché ogni persona doveva essere etichettata non solo con una classe sociale, ma anche con un colore? Questa cosa le faceva ribrezzo, e aveva paura a rispondersi.
Lasciò ricadere il petalo in mezzo agli altri e, dopo essersi tappata il naso con due dita, strizzò gli occhi e s'immerse sott'acqua, lasciando che quell'improvviso calore le investisse la faccia fastidiosamente, lasciando poi spazio a un'ondata d'immenso piacere per quell'accogliente acqua. Iniziò a mancarle il fiato, così riemerse, mugugnando subito quando le sue gote bagnate incontrarono la pungente aria del bagno.
La porta si aprì improvvisamente, facendola sussultare. Le sue braccia andarono automaticamente a coprirsi i seni, e si raggomitolò su sé stessa. Si voltò di scatto e si tranquillizzò subito quando vide che era Hideki, suo fratello maggiore.
All'età di nove anni, Hideki perse la madre, morta in seguito al parto di Mikasa, e pochi mesi dopo anche il padre, suicidatosi a causa della mancanza di sua moglie. I due fratelli non ebbero vita facile. Si dovettero trasferire in orfanotrofio, dove rimasero per anni, senza che nessuno li volesse mai adottare.
D'altronde, chi avrebbe mai voluto due bambini così taciturni e depressi?
Hideki venne poi rilasciato nel momento in cui compì diciotto anni, raggiungendo la maggior età. Per mesi non si fece più sentire, né vedere. Mikasa era ogni giorno più triste, perché non aveva più nessuno accanto a lei. Nessuno.
Passavano i giorni, e Mikasa campava. Aveva una dieta equilibrata, faceva la giusta quantità di sport ed esercizio fisico, la sua salute era indiscutibile. Ma l'assenza di qualcuno che stesse accanto a lei, aveva fatto sì che la mattia si sviluppasse, più che nel cervello, nel suo cuore.
Passò un anno. Era il compleanno di Mikasa. Una misera fetta di torta con una candelina utilizzata almeno un'altra ventina di volte era poggiata sul davanzale. La cera si scioglieva lentamente, e Mikasa soffiò sulla fiammella che si dimenava imperterrita. Bussarono alla porta. Mikasa disse solo: "Avanti." E da quella porta entrò suo fratello. Hideki.
Prese la sorella con sé, adottandola, e si trasferirono insieme in un paesino tra le alture dell'Hokkaidō. Da quel momento non si erano più separati.
Ma Mikasa col tempo cresceva e, anche se nel profondo di sé continuava a trasportare un peso enorme quanto un macigno, voleva vivere la sua vita, fare le sue esperienze. Il loro legame si usurò poco a poco, fino a quando non divennero semplici coinquilini. "Ciao, come va?" "Bene, tu?" "Bene anch'io", queste erano diventate le loro conversazioni, noiose e miserabili come un quadro che si osserva per tutti i giorni della propria vita.
Ma poi, quando arrivò Akihiko, e l'equilibrio fisico e mentale di Mikasa si ruppe, Hideki non poté più starsene fermo a guardare tutto dall'alto. Non era un dannato spettatore al cinema, e quello non era un dannatissimo film. Era sua sorella.
Le era stato accanto nel momento più buio, e ora non poteva abbandonarla così.
"Hide." disse solamente Mikasa.
"Miky." disse a sua volta Hideki.
Chiamarsi con i soprannomi che erano soliti usare da pupilli fece riempire i loro occhi di lacrime. E le lasciarono sgorgare, quelle lacrime. Le lasciarono sgorgare a fiotti, come sgorga il petrolio non appena ne si trova un'abbondante fonte.
Hideki si spogliò, ed entrò in vasca con sua sorella. Era abbastanza ampia per contenere entrambi. Le asciugò le lacrime con il pollice e la strinse forte a sé.
Mikasa ricambiò l'abbraccio, chiudendo il corpo di suo fratello tra le sue braccia il più forte possibile, conficcandogli le unghie nella pelle.
"È tutto finito Miky; ci sono io."
Mikasa non poté far altro che scoppiare a piangere. Pianse, pianse, pianse. Gemiti e lamenti non facevano altro che fuoriuscire dalle sue labbra mentre l'intenso vapore rosa avvolgeva i due fratelli, così uniti che sembravano una cosa sola. Erano una cosa sola.
E Mikasa, dopo aver pianto, urlò. Urlò di dolore, urlò di tristezza, urlò di nostalgia, urlò di malinconia, urlò di depressione.
E poi, sciogliendosi dall'abbraccio, fissò Hideki negli occhi, e gli sorrise. Gli sorrise di gioia. Perché lui era il sole, venuto dopo la sua tempesta. O meglio, dopo le sue tempeste.