Fogli di carta appallottolati sul pavimento e un altro andava a raggiungere gli altri.
Erano le 4.45 di mattina, Aaron Knight era stanco, ma non riusciva ad addormentarsi. Tra mozziconi di sigaretta, odore di erba e bottiglie vuote di qualche liquore scadente, comprate al negozio di alimentari, all'angolo della strada, l'unico aperto alle due di notte — Aaron ci provava davvero a scrivere qualcosa, ma non serviva a nulla. Le parole gli rimanevano incastrate tra i denti, sulla punta della lingua, la matita minacciava ad ogni lettera di scivolargli dalle mani. Forse aveva bevuto troppo, di nuovo e non sapeva nemmeno dire con esattezza quando aveva perso il controllo. Probabilmente dopo il quinto bicchiere, o in realtà il suo controllo se ne era andato almeno due anni prima. Era per questo che Evelyn lo aveva lasciato e si era portato via la loro bambina — "non sei mai sobrio" gli diceva, ma lui aveva bisogno di scrivere e non poteva farlo a mente lucida. Voleva scacciare le ombre che gli affannavano i pensieri ogni giorno e che lo destavano ogni notte. Gli prudevano le mani e poi su, lungo il braccio, fino al gomito, aveva bisogno di scrivere ma non era capace più nemmeno di quello.
Aaron non voleva più pensare. Perché non si può spegnere la mente con un semplice interruttore? Era stanco, ma non voleva andare a dormire. Si sentiva inutile, inutile come i fogli appallottolati ai suoi piedi, inutile come la scrittura che non riusciva più a farlo emozionare, che gli costava fatica e sforzi e che non voleva uscire, andare a stamparsi sulle pagine bianche. Non aveva più nulla da raccontare.
Non aveva ancora capito a cosa serviva la vita e un giorno l'avrebbe fatta finita, si diceva.
Aaron Knight aveva venticinque anni, ma gli sembrava di averne vissuti cento e più.
Una settimana dopo.
Grattacieli.
Aaron Knight stava sul tetto di un alto palazzo, mentre fumava una sigaretta — l'ultima, si diceva, questa volta per davvero.
Gettò il mozzicone giù dal palazzo e l'osservò finché non lo perse di vista del tutto. Anche lui avrebbe voluto scomparire, diventare invisibile, mentre si buttava. Era in piedi sul cornicione, Aaron Knight aveva deciso di chiudere lì la sua partita, classica frase, finale scontato. Perché raccontare la storia di uno che tra poche righe sarebbe morto? Qualche ora prima aveva chiamato sua figlia di cinque anni, ma non aveva voluto parlargli. Chissà se la piccola era in grado ancora di riconoscere la voce del papà, quando pure a lui suonava distorta e distante. Anche quel giorno aveva bevuto troppo, di nuovo.
Aaron era arrivato finalmente a chiedersi che senso aveva stare al mondo, quando pure le persone più care gli avevano voltato le spalle? Se la sua vita fosse stata un quadro, pensava, la tela sarebbe stata nera. Vuota. Spenta. E così aveva deciso.
Si guardò attorno un'ultima volta, in fin dei conti le grandi città, i grattacieli, le macchine che si inseguivano senza sosta lo avevano sempre affascinato, nel buio della notte quasi riusciva a scorgere un mondo migliore, una volta che se ne sarebbe andato. Fu allora che la vide. Proprio quando era ad un passo dal gettarsi, quando la decisione era stata presa e non sentiva nemmeno più paura o rimorso. C'era una ragazza, dall'altra parte del cornicione, in piedi, ad occhi chiusi. Aaron agì d'istinto: «Ehi! Ehi che stai facendo? Scendi giù!»
La ragazza sorrise, era così giovane lei. «Potrei dire lo stesso di te.»
«Perché vuoi buttarti? »
«E tu perché vuoi farlo?»
«Non ha risposto alla mia domanda!»
«Neanche tu alla mia.»
Che situazione, si ritrovò a pensare Aaron — cosa avrebbe dovuto fare? «Va tutto storto, non ho nessun motivo valido per restare.» disse lui allora.
«E ti sembra forse una scusa plausibile? Tutti hanno i loro problemi. Se non vuoi più restare trasferisciti in un altro stato, viaggia, comincia una nuova vita!» la ragazza solo allora aprì gli occhi, scese dal cornicione e si avvicinò a lui, tendendogli una mano, «"Non si può scegliere il modo di morire. E nemmeno il giorno. Si può soltanto decidere come vivere. Ora ", Joan Baez. »
«Che stai facendo?»
«Dai, non può essere tutto perduto. Una volta che salti non puoi più tornare indietro, Aaron.»
«Come fai a sapere il mio nome?» lui la guardò con sospetto, ma capì che quello non era ancora il momento di mettere la parola fine a se stesso. Probabilmente aveva perso la testa, il brandy californiano bevuto qualche ora prima doveva avergli fottuto completamente il cervello. Quella doveva essere un'allucinazione, non c'erano altre spiegazioni. Guardò giù un'ultima volta, forse avrebbe dovuto solo voltarsi e saltare, poi sarebbe tutto finito. Invece le prese la mano saldamente, sentendosi un po' stupido per aver anche solo pensato di potercela fare, buttandosi da un grattacielo di settanta piani. O probabilmente era solo troppo ubriaco per formulare pensieri decenti.
«E—e come ti chiami? Chi sei?»
«Cher, e visto che ti ho salvato la vita oggi, farai quello che ti dico io.»
«Non hai nemmeno risposto ad una singola domanda che ti ho fatto, perché dovrei seguirti?»
«Stavi per gettarti da un palazzo, cos'hai da perdere? Ogni cosa a suo tempo, vedrai.»
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(Don't) tell me if I'm dying
Teen FictionAaron Knight sente che la sua vita è un fallimento, per questo decide di suicidarsi. E' sul tetto di un alto palazzo e sta per compiere il passo che lo porterà alla morte, quando lo ferma una strana ragazza in abito nero, che parla per aforismi di n...