Il migliore dei mondi di Leibniz

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Leibniz sosteneva che Dio avesse donato all'essere umano il migliore dei mondi possibili: equo fra bene e male, fortuna e sciagura, amore e odio. Generalmente non accreditava mezza lira ai filosofi, specie se basavano il pensiero di una vita intera sul voler giustificare l'esistenza con la religione. Ma Leibniz, Leibniz era il dito che pigiava un nervo scoperto senza tatto alcuno perché, nonostante tutte le cazzate da gesuita, era universalmente riconosciuto come un uomo di scienza! Colpa e merito erano suoi se nelle scuole si studiavano gli integrali e probabilmente senza il suo genio la sua laurea avrebbe avuto valenza zero. Lo sapeva, glielo riconosceva. Si chiedeva solo quali acidi avesse assunto quando aveva pensato fosse una buona idea quella di mettere da parte la logica e la matematica per concentrarsi sugli eterni perché. Dio aveva creato e donato il mondo alla feccia umana, disegnandolo nel migliore dei modi possibili? Il migliore? Dio? Stronzate! Gli pareva tanto la risposta di uno che dopo eterne elucubrazioni avesse deciso di mandare tutto in caciara buttandosi a caso su una becera teoria che con altrettanta casualità era divenuta oggetto di studio nelle scuole e nelle università umanistiche. Perché quello erano gli umanisti, gli intellettuali, i letterati e i filosofi: pomposi che avevano creduto un po' più degli altri alle proprie cazzate e che alla fine erano pure stati baciati dalla dea bendata. Ecco, suo padre era il classico esempio di professorone super convinto dei propri ideali destinato però all'oblio come gran parte dei suoi simili. Il  secolo successivo lo avrebbe fatto fuori, gettandolo nel grosso pentolone del dimenticatoio, a prescindere dagli sforzi e dalle manie di grandezza. La dura realtà di chi decideva di impiegare la propria vita e il proprio tempo a studiare il pensiero di quattro bifolchi fortunati nella speranza di essere ricordato come il sofistico erede di Nietzsche. E magari il suo era solo il parere scettico di un ragazzo che aveva deciso di abbracciare la via delle scienze concrete e della ragione, ma di una cosa era assolutamente certo: bei paroloni e ragionamenti intricati non avevano e non avrebbero mai contribuito al progresso. Perché per quanto ammalianti e infronzolati, restavano ciò che erano: pensieri senza alcuna esperienza empirica che potesse accreditare loro una qualche veridicità assoluta. Quindi perché perdere tempo, Leibniz?

Il ghiaccio tintinnò con il vetro del bicchiere e lui mise nuovamente a fuoco il sudicio bancone del locale in cui si trovava non per propria volontà. La barista sollevò un sopracciglio e il piercing che le perforava la carne si mosse di conseguenza, andandosi a confondere con la dritta frangetta scura, la mascella che si muoveva per via del gomma che continuava a masticare a bocca semi aperta. Probabilmente lo stava giudicando, e come torto darle? Aveva quel bicchiere in mano da almeno dieci minuti e si era perso a rimirare i cubetti che vi galleggiavano all'interno mentre divenivano di secondo in secondo più piccoli, soggetti al calore della propria mano e del riscaldamento sparato a mille proprio sulla testa. Simone era fatto in quel modo: chiudeva il suo inconscio nella più recondita stanza della mente e cominciava a focalizzarsi su dettagli inutili, spendendovi più tempo di quanto fosse realmente e utilmente necessario, il tutto per evitare di pensare lucidamente. In quel caso, pensare a dove si trovasse.

Roma.

L'inconscio, insoddisfatto della risposta, bussò forte a quella porta. La prese brutalmente a calci, come una sorellina pestifera buttata fuori, e Simone sospirò, avvicinando il bicchiere alle labbra per prenderne una sorsata e lasciare che l'alcol gli infiammasse il palato. Un bicchiere era decisamente troppo poco, ma finse di farselo bastare. E poi la diede vinta a quell'infame, costringendosi a restare presente a lei e a se stesso.

Centocelle.

In un buco di merda, con le luci troppo basse e la musica troppo alta, ad essere puntigliosi (quella precisione di cui tanto si professava fanatico). Gli rimbombava nel torace, nelle tempie, la sentiva nel vibrare del calice contro il labbro inferiore, ricordandogli quanto da sempre odiasse quei localini col puzzo di sudore e feromoni incrostato nelle pareti. Stava rimpiangendo il divano-letto smollato nel suo monolocale dall'affitto troppo caro su a Milano

Leggi della Crononautica per Cuori infranti [Simuel]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora