IL PREVARICATORE

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Adagiato, le gambe rialzate, talloni deposti sullo scrittoio.

Il prevaricatore si ristora rilassato. Osserva invadente il planisfero di cartone, a colori, una metafora dello straniero.

Indice e pollice trastullano un minuscolo tank rosso. Ha confidenza nelle dita disinvolte.

Lo conduce in avanscoperta sulla sommità dei polpastrelli e, premendo il piccolo cannone, imprime il profilo nella pelle.

Il freddo lo attacca alle spalle, esposte alla finestra aperta. Il duce innesca l'immaginazione.

Aria, ecco quello che gli serve. Spazio.

Orienta lo sguardo al varco nel muro e oltre, il soffio bombarda dalle narici dilatate, la bocca trincerata come un rasoio. Terra, ecco ciò che desidero.

Concepisce ed esamina la piccola armata ben piazzata nel planisfero. Immagina un conflitto superiore, organizzato, ogni fante collocato, la cavalleria a ingaggiare la carica. Come una scacchiera, la vita è per lui monumento al patriottismo in bianco e nero. Avanza verso la finestra, ma ricorda il cecchino e la serra prontamente. Nemmeno lui può uscire dall'allegoria. È la sua ragion d'essere.

Breccia la bocca in una smorfia da ammiraglio. Ondeggia nell'aria il tank rosso, gioca come fanno i bambini. Sorride dei versi infantili che gli escono dalla gola, mentre bersaglia il silenzio. Pum pum. Preme avanti la mascella e spinge i pugni nei fianchi. Si immagina ondeggiare nell'aria, a pochi metri da terra, come mercurio di liberazione.

Balza sullo scrittoio, trionfante. Dall'alto afferra l'equa prospettiva. Alza lo scarpone militare e pesta il planisfero policromo, in una deflagrazione di fanti, cannoni e obiettivi.

Meglio così, pensa.

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