Capitolo I

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Ciò che conosciamo di noi è solamente una parte, e forse piccolissima di ciò che siamo a nostra insaputa. L'umorismo, Luigi Pirandello

Qualche tempo prima

Era buio. Avevo il respiro affannoso. Vedevo offuscato. I miei occhi non riuscivano ad abituarsi a quell'oscurità. Le mani mi tremavano, e con loro tutto il resto del corpo. Alzai gli occhi al cielo, intravedendo una luce soffusa tra le nuvole. La luna, pensai. Mi resi conto di avere il volto bagnato, forse erano lacrime, forse pioggia, forse entrambe. Sentivo la tristezza invadermi il petto, come una fiamma che divampa nel cuore della foresta. E così ero io, un ramoscello che prendeva fuoco. Ero intrappolata tra quegli alberi familiari, come se volessero dirmi qualcosa. Un attimo dopo, senza preavviso, sopraggiunse quel solito dolore insopportabile, proprio alle tempie, e tutto nella mia testa sembrò offuscarsi. L'attimo dopo ero di nuovo lì, nella mia banale stanza. Ripensai a ogni dettaglio, eppure i miei ricordi erano annebbiati e confusi, e per quanto volessi non fui in grado di riportare altro alla mente. Sentivo solo un'infondata consapevolezza di non essere sola; qualcuno era lì con me, qualcuno al quale inspiegabilmente avrei dato la mia stessa vita. Ero sdraiata nel mio letto, a fissare un punto nel vuoto. Gli occhi si erano schiusi da poco, eppure avevano già visto tutto. Ogni notte il solito incubo, se così si poteva definire; ogni notte la mia mente continuava a rievocare quelle sensazioni, sensazioni che mi appartenevano ma che in quel momento non sentivo mie. Continuavo a rivivere frammenti di immagini rubate da chissà dove - ricordi, forse - ed era frustrante. La loro provenienza rimaneva sempre un enorme punto interrogativo, marchiato a fuoco nella mia mente. Nonostante avessi passato l'ennesima notte insonne, tra sogni e incubi, la notte si era schiarita lasciando spazio all'alba, e anche se i miei pensieri non erano affatto chiari sembrava proprio essere una normale mattinata invernale. Mi costrinsi ad alzarmi dal letto, come ogni giorno, come fossi un robot. Mi ritrovai in piedi, immobile davanti allo specchio. Sollevai la testa e incontrai i miei occhi. Il mio sguardo si soffermò su di me, su quella persona che all'apparenza ero io, ma che ormai non riuscivo più a riconoscere. I lunghi capelli color nocciola mi ricadevano sulle spalle fermandosi a un palmo dal fondoschiena. Sembravano più un groviglio di rami di cui il giardiniere si è dimenticato di prendersi cura. Risultavano arruffati e spenti, proprio come il mio animo. «Sono così grandi e caldi i tuoi occhi, Mune, che mi ricordano proprio il mio caffellatte» diceva sempre mia zia e io non sapevo mai se prenderlo come un complimento o meno. «Basta che una mattina non ti sbagli, zia Kate, e inizi a inzupparci quei tuoi biscotti nauseanti» era la mia risposta il più delle volte, e finivamo il discorso con una risata. La mia stanza sembrava uscita da un museo: avevo sempre amato lo stile ottocentesco, e avevo cercato di riprodurlo nella mia camera. Il letto a baldacchino faceva da tela a delle misteriose incisioni. La luna e la fenice erano quelle che perlopiù si ripetevano. Non mi ero mai chiesta cosa significassero, eppure quegli strani sogni mi destavano dei dubbi, e quella luna era sempre più ricorrente. Presi posto sulla sedia di fronte a me. Lo schienale aveva la forma di una foglia e il sedile era imbottito. Su di esso vi erano rappresentati i fiori di ciliegio, cosa che lo rendeva il mio mobile preferito. Ero sul punto di prendere in mano la penna dalle incrinature dorate. «Mune, tesoro, vieni a fare colazione» risuonò la dolce voce di mia madre nella stanza. «Studi dopo» aggiunse, eppure non sentivo affatto il bisogno di mangiare, tanto che mi risultava sempre più difficile. Lasciai la penna sul quaderno e decisi lo stesso di raggiungere la mia famiglia al piano sottostante. Il mio corpo si muoveva senza volerlo: avevo posato la mano sul pomello, e dopo un leggero click la porta si era schiusa. Ed eccomi ripiombata nelle tenebre. C'era un silenzio assordante. Ero immobile di fronte a quell'inquietante corridoio che mi attendeva impaziente. Poi sentii una voce, quasi un sussurro; sembrava provenire dall'oltretomba per quanto era cupo. Mi si gelò il cuore. Ero fragile e vulnerabile, e tutto intorno a me sembrava essermi ostile. Rimasi lì, paralizzata, appena un passo oltre la mia stanza. Poi la voce cessò. Si susseguirono attimi interminabili di silenzio, e per un momento mi sembrò di tornare nei miei incubi. Poi udii delle voci, questa volta provenienti dal piano di sotto. Nessun sussurro, nessuna voce di tenebra, quegli incubi mi stavano dando tregua, lasciando spazio almeno per un momento a quella che si poteva definire normalità. I miei due fratellini urlavano e si rincorrevano per casa, avevano sei anni e insieme non riuscivano a fare la mia età. Ci fu un tonfo. Mi sporsi più avanti fino ad affacciarmi dal parapetto che dava sull'atrio. «Dannazione, era un cimelio di famiglia, avete idea di quanto valesse?» Fu la voce dura e forte di mio padre, sostituita immediatamente da una più dolce e premurosa: la mamma cercava sempre di calmare l'animo tempestoso di Hardie - così lo chiamava lei - mentre per noi ovviamente era solo papà. «Ragazzi, a tavola.» Solo in quel momento una scia di inebriante profumo proveniente dalla cucina mi pervase. Feci un lungo respiro per assaporarne ogni sfumatura: pancake. Nel frattempo Jason e Jonathan, senza controbattere avevano eseguito gli ordini di nostra madre e adesso sedevano ognuno al proprio posto. Probabilmente anche loro erano stati assaliti da quell'ondata di profumo. L'attenzione ricadde su mio padre; era chino a terra, i lineamenti corrugati, le braccia tese verso il basso e le gambe piegate. Era dedito a raccogliere ogni singolo pezzo di coccio che toccando il suolo si era spezzato. Gli stava molto a cuore, apparteneva alla sua famiglia da anni e forse gli ricordava fin troppo i miei nonni, scomparsi da qualche anno ormai. Mi sentii triste per lui. Distolsi l'attenzione e mi guardai attorno. La luce che entrava dalla finestra dava alla casa quell'accoglienza che al calar del sole mancava. Mi aggrappai al corrimano, forse per sentirmi più al sicuro, e il legno scaldato dal sole mi penetrò nel palmo, fino a scongelarmi il cuore, che ormai aveva ripreso il suo naturale battito. Scesi uno scalino alla volta lentamente. Questo mi dava modo di pensare. Forse avrei dovuto aggrapparmi a ciò che mi circondava, avrei dovuto dar peso ai piccoli gesti, alla bellezza della quotidianità, e allora, solo allora mi sarei sentita tale anch'io. Stavo addentando il pancake allo sciroppo d'acero mentre mio padre era appena arrivato, aveva raccolto i frammenti del vaso in una scatola e l'aveva riposta sopra uno dei mobili del salone. Era silenzioso. «Papà, papà sei triste?» chiese Jason. «È per quel vaso?» domandò Jonathan ingenuamente. Gli somigliavano molto entrambi, capelli biondi cenere e occhi verdi, tranne Jonathan, che li aveva color prugna. «Dategli tregua, quel vaso era molto importante per lui» li riprese mia madre. I suoi occhi erano del colore del ghiaccio, mentre i capelli erano scuri, proprio come i miei. Papà era alto e sia Jason sia Jonathan sembravano aver ripreso da lui, mentre io e la mamma eravamo né troppo basse né troppo alte. "Con un paio di tacchi sarai perfetta, e poi nella botte piccola c'è il vino buono" diceva sempre mia madre, terminando la frase con un occhiolino. «Mune, tra trenta minuti esatti iniziamo la lezione di trigonometria» mi ricordò indossando un velo di finta serietà. «Di letteratura, mamma» la corressi sorridendole. Nonostante fosse un po' sbadata era una bravissima insegnante, in fondo ero stata fortunata. «Oh sì, giusto» si ricordò. «Voi andate a farvi la doccia, e poi cambiatevi» disse riferendosi alle due pesti che si rincorrevano per la cucina. «Ai suoi ordini!» risposero all'unisono scherzosamente, e si dileguarono al piano di sopra. «Veloci, avete lezione anche voi» gli gridò dietro con un tono più severo. «Torno subito, intanto che si preparano vado a fare la spesa» si rivolse a me mentre si dirigeva verso la porta per indossare il suo impermeabile cobalto. «Fai la brava» disse invece mio padre dandomi un bacio sulla fronte. «Aspettami, tesoro, ti accompagno io» aggiunse poi affrettandosi verso l'uscita. Ora che la porta si era chiusa, ero rimasta sola. Dannazione. Istintivamente mi portai una mano alla testa: non avevo fatto i compiti. In un istante mi ritrovai al piano di sopra, e mentre afferravo il libro di letteratura, fui colpita da un mal di testa lancinante. Non di nuovo, pensai, lasciando scivolare le ginocchia sul pavimento. Ecco tornare quella terribile sensazione. Il mio petto prese vita propria e lo stomaco si attorcigliò. Si crearono mille sfumature attorno a quell'oscurità e le figure dapprima sfocate si mostrarono ai miei occhi. Ora una sagoma iniziava a prendere forma nel buio della mia mente. Era un uomo. Portava un cappotto lungo fin sopra le ginocchia e stivali neri. L'oscurità del cielo che colpiva per metà il suo volto mi impediva di distinguerlo; solo il suo sguardo intenso e agghiacciante era in parte visibile. Il cappello a cilindro aveva una tesa larga, che aiutava a nascondere il suo sguardo. Anche se il suo viso era rivolto verso il basso, era evidente che mi osservasse. E io avevo l'impressione di conoscerlo, anzi ne ero certa. D'un tratto l'atmosfera era divenuta tesa e insopportabile, tanto che rimasi paralizzata dalla paura. Senza essere in grado di muovermi né di parlare. I nostri sguardi si incrociarono per un tempo che sembrò interminabile. Infine la figura si voltò, dileguandosi nell'oscurità della foresta. * * * Mi rialzai lentamente dal pavimento, ancora confusa da quelle immagini talmente realistiche da farmi tremare ogni singola parte del corpo. Anche se si erano dissolte dalla mia mente, quella sensazione di terrore era ancora troppo vivida e quell'uomo, ero certa, non sarebbe scomparso facilmente. «Ma cos'è successo?» sussurrai con un filo di voce. Una lacrima solcò inarrestabile il volto perché capii che niente nella mia vita sarebbe stato semplice, e che forse non avrei più potuto fare finta di niente. Quelle figure oramai si insinuavano nella mia memoria sempre più spesso, e ogni volta il dolore che provavo si faceva via via più forte. Un rumore incessante iniziò a ticchettare pesantemente sulla finestra, così mi voltai e vidi lacrime di pioggia scivolare lungo di essa; erano i lampi tra le nuvole a illuminare il cielo cupo. Tra un tuono e l'altro, un ricordo fece breccia nella mia mente. Era il due novembre, la mattina del mio ottavo compleanno, lo ricordavo alla perfezione. Anche quel giorno di sette anni prima il cielo sembrava esser triste. Mia madre mi raccontò che una bambina inspiegabilmente si era ustionata mentre litigava con una sua compagna. I miei temevano che potesse accadere di nuovo. «Potrebbe capitare a te, Mune. Non sei al sicuro in quella scuola, cerca di capire» fu ciò che dissero. È da quel giorno che io e i miei fratelli studiamo a casa con nostra madre. Anche lei insegnava nella nostra scuola, e dopo quel fatto non vi era più tornata. Non mi ero opposta, era l'unica scuola nel raggio di chilometri. Non ho scelta, mi ripetevo. Eppure sapevo che quello non era l'unico motivo. Avevo avuto paura anch'io, quel giorno, forse più di tutti gli altri bambini. Per me gestire le emozioni era sempre stata un'impresa. "Senti tutto, troppo, piccola mia" mi diceva mia zia. Allora non sapevo cosa intendesse, ma forse cominciavo a comprendere quella frase. Quella stessa sensazione era ancora imprigionata dentro di me, come un livido ormai invisibile. Avevo paura e non mi ero opposta, perché in fondo tornare in quella scuola avrebbe voluto dire riaprire una ferita. Avevo paura, così mi ero nascosta dentro me stessa, come quando temi il buio e tiri la coperta fin sopra la testa, ma alla fine prima o poi sarei dovuta uscire da quel letto e tornare ad affrontare la realtà. Col tempo quell'emozione si era assottigliata e avevo iniziato a farmi più domande. Ogni mattina guardavo la finestra, fissavo la mia scrivania e desideravo studiare al di fuori di quelle quattro mura solitarie. Era un po' che osservavo sfilare davanti a casa mia i miei coetanei, era un po' che mi sentivo sempre più prigioniera di quella villa, quella stanza era diventata troppo piccola per i miei sogni, e i dubbi che risiedevano nella mia mente stavano uscendo tutti assieme, senza lasciarmi il tempo di prendere fiato. Ormai di anni ne avevo quindici e quei sogni li avevo soffocati con me, sotto le coperte. Odiavo festeggiare il mio compleanno, odiavo anche solo vederlo arrivare, mi ricordava il giorno in cui la mia libertà mi era stata preclusa. La finestra descriveva appieno il mio umore. «Eccoti!» esclamò la voce premurosa di mia madre, mentre spalancava la porta. Istintivamente l'abbracciai, incapace di sorreggere tutto quel dolore da sola, ma altrettanto incapace di confidarmi con lei. Rimanemmo così, in silenzio per un po'. «Ti sono mancata così tanto?» mi chiese scherzosamente, interrompendo quel momento. Le sorrisi. Allontanandomi dalle sue braccia, dissi: «Io sono pronta». Afferrai il libro dal pavimento e glielo sventolai in faccia, dirigendomi al piano di sotto, evitando qualsiasi discorso, perché non sopportavo l'idea che qualcuno potesse vedermi soffrire, tantomeno mia madre. «Ecco dov'eri» disse mio padre senza alzare lo sguardo dal PC. Nel frattempo mia madre ci aveva raggiunti, e tutto sembrava tacere. Persino il rumore della pioggia si fece più debole. «Hardie, potresti salire a chiamare Jason e Jonathan, per favore? Proprio non vogliono sentirmi.» Ma mio padre era talmente concentrato che non le destò attenzione. «Vado io» la avvisai mentre ero già sulle scale. «Grazie, tesoro.» D'un tratto la porta d'ingresso fu spalancata mostrando l'ombra di un uomo con un cappello a cilindro; le gocce d'acqua gli scivolavano di dosso finendo sul parquet, e mentre avanzava con gli scarponi che lasciavano impronte di fango, i suoi passi ruppero il silenzio della casa. La sensazione di angoscia tornò ad attanagliarmi, mi parve di respirare la stessa atmosfera di quella strana visione di poco prima. «Sono qui per Mune Fries.» Quella voce tenebrosa esplose nell'aria. Mi voltai verso la porta d'ingresso, e nel frattempo vidi i miei genitori guardarsi allarmati. I loro occhi si stavano parlando, come se non fossero poi così sorpresi, come se in fondo lo aspettassero. «Mamma, papà?» Fu l'unica cosa che riuscii a dire. Mia madre si precipitò su per le scale e mi raggiunse. Mi afferrò per un braccio e cadde, trascinandomi con sé. «Che succede?» chiesi allarmata senza ricevere risposta, mentre sentivo i muscoli paralizzarsi. Mio padre nel frattempo si era scaraventato contro l'uomo, tentando di fermarlo, ma fu colpito da un pugno in pieno viso. «Papà!» urlai con tutta la voce che avevo. Liberandomi dalla presa di mia madre, mi affrettai a raggiungerlo. «No, Mune!» mi gridò dietro mia madre, ma era troppo tardi. Il misterioso uomo era piombato davanti a me, mi bloccai a metà della scalinata, senza poter raggiungere mio padre, senza avere il tempo di tornare indietro. Lo guardai negli occhi e lui guardò me, e per un attimo vidi lo sguardo dell'uomo di quel sogno, il cappotto, gli stivali, la ciocca di capelli scuri. Ogni dettaglio sembrava prendere forma. «Sei tu» gli urlai contro. «Cosa vuoi da me?» Ero faccia a faccia con il nemico, il suo sguardo puntò il mio e la sua voce roca mi penetrò nel profondo. «Tu non sarai più una minaccia per la mia missione» disse. Spostai lo sguardo su mio padre, che era riverso sul pavimento. Il sangue gli colava dalla testa. Mi guardava: nei suoi occhi leggevo la sua sconfitta. In quell'unico momento di distrazione fui colpita con violenza sullo stomaco, finendo a terra. Mi sentii mancare l'ossigeno. In quell'istante, tutti i sogni che avevo fatto fino a quel giorno si mostrarono nella mia mente, come una tempesta confusa venuta ad avvertirmi. Non ebbi il tempo di riflettere, una nube nera si propagò dalla mano dell'uomo, assumendo una forma indefinita e instabile. «Papà, cosa succede?» urlai ancora una volta. Non riuscivo più a vedere una via d'uscita. In un istante la nube si diresse verso di me, senza lasciarmi il tempo di reagire. Urlai ancora, un urlo acuto che risuonò per tutta casa. Poi chiusi gli occhi, arrendendomi al mio destino. Ma l'impatto non avvenne. Quando aprii gli occhi vidi il volto di mio padre. Cercava invano di liberarmi dalla presa, riuscendo a colpire l'uomo più volte sulle costole, ma questi non accusò alcun colpo. Mio padre fu spinto via con forza, così forte che il muro di cartongesso si sgretolò all'impatto. Ora era lì, sotto quel muro disintegrato. Il sangue gli colava dalla testa inclinata sul petto, privo di vita. «No» urlai finchè non mi bruciò la gola. «Papà» la voce mi si spezzò, così come qualcosa dentro di me. Quello fu l'ultimo ricordo che ebbi di lui, spazzato via in un attimo. Con la vista ancora annebbiata dalle lacrime mi ritrovai ad attraversare la stanza, fino ad abbracciare mio padre. Vedere il suo corpo inerme mi fece ancora più male, fino a non riuscire più a sopportare il dolore. Sentii un'energia nascosta crescere in me e farsi strada attraverso la mia sofferenza. Più la sentivo crescere, più sentivo di non poterla più contenere, e più guardavo quell'uomo, più si ravvivava. «Non mi importa chi sei, non ti perdonerò mai!» gli urlai contro, noncurante della reazione che avrebbe potuto avere. Emanai un'energia sconosciuta. Una nube nera si propagò dal mio corpo, colpendo tutto ciò che avevo intorno, tra cui il comò d'antiquariato e il tavolo dov'era il portatile di mio padre. Fummo circondati dal fuoco. Potevo udire il legno disintegrarsi sotto le fiamme. Poi intravidi quell'uomo nella nube di fumo che si era creata: era ancora lì, a metà della scalinata. Sentii di nuovo la rabbia ribollire dentro di me e il mio corpo scaldarsi; ora l'energia stava attraversando ogni singola particella del mio corpo, la sentii bruciare sulle mani e una nuova nube tinta di nero si irradiò dai miei palmi, dirigendosi verso la scalinata, verso l'uomo misterioso. «Questo è per mio padre» esclamai quando la nube lo colpì sul braccio destro, dal quale scaturì un fiotto di sangue che macchiò la giacca. Divenne inerte. Pensai di avercela fatta, ma in un lampo si voltò ed entrò nella stanza dei miei fratelli, scaraventando mia madre al piano di sotto. «No» urlai, inseguendolo, ma aveva già sferrato un attacco verso di loro. Una nube nera trasparente li aveva intrappolati come in un enorme palloncino. Sembravano addormentati. L'uomo si girò verso di me mentre cercavo di sferrare l'ultimo attacco. «Tornerò a prendere anche te» disse infine colpendomi in pieno petto e facendomi scivolare per le scale. Poi si volatilizzò. L'aria si faceva sempre più rarefatta e la mia vista era annebbiata dal fumo. «Mamma, mamma, dove sei?» Terminai l'ultima parola a fatica, cercando di schiarirmi la voce. Sentivo la gola chiudersi e i polmoni bramare l'ossigeno. Mentre la vista si oscurava potevo vedere ogni mobile della casa avvolto dalle fiamme. Sembravano essere vive mentre danzavano inarrestabili nell'aria. Ne ero quasi stregata, se non fosse che la forza iniziava lentamente a lasciarmi, e nessuna parte del corpo rispondeva più ai miei comandi. Non voglio morire, non voglio. Fu allora che una sagoma luminosa, quasi accecante, mi si mostrò davanti. Mi parve di vedere delle ali posarsi sulla mia schiena mentre mi raggomitolavo, e un briciolo di speranza scaldarmi l'anima. Appena un attimo dopo, una luce limpida e chiara si propagò intorno a me, allontanando il calore e quelle fiamme rosso sangue. Forse quell'essere mi stava salvando, o forse era la fine di tutto. Ma furono solo frammenti sfocati e confusi. Poi la vista si scurì e i suoni all'esterno si affievolirono. Fu così che mi lasciai scivolare sul pavimento. Quando riaprii gli occhi avevo perso la cognizione del tempo. Il buio si era impossessato della luce, così come della stanza, che era quasi completamente immersa nell'oscurità, tranne per un piccolo spiraglio, che si era intrufolato creando una scia dalla finestra fin sopra il divano. Andai a tentoni da mia madre, che si trovava poco distante. Ero sopra di lei, le mie lacrime cadevano finendole sul viso. «Mune, piccola mia, non piangere» mi sorrise con fare dolce. «Mamma» iniziai a singhiozzare. «Mamma, ti prego, non lasciarmi.» Facevo fatica a parlare. «Tesoro, ascoltami, abbiamo poco tempo.» Si soffermò un secondo. «Vorrei aver potuto fare di più per te.» La sua voce sembrava essere calma mentre io continuavo la cascata di acqua salata che scendeva dai miei occhi. «Ti prego, no» dissi con un filo di voce. Mi accarezzò la guancia. «Quell'uomo è crudele, corroso dall'oscurità, ti farà del male non appena riuscirà ad avvicinarsi di nuovo a te, e ora,» faceva fatica a continuare «ora ha preso i tuoi fratelli. Trovali, Mune, e salvali.» «Te lo prometto, mamma, te lo prometto» continuavo a ripetere. «Rimani qui con me, ho bisogno di te.» Poi la sua mano si mise davanti alla mia bocca. «Shh» mi disse. «Ricordati che io sarò sempre qui con te.» Indicò il mio cuore. «Sei speciale, figlia mia, sei sp...» Poi la mano cadde con un tonfo. I suoi occhi erano fermi e con essi il suo respiro. E d'un tratto uscì tutto ciò che avevo dentro, come se il mio corpo non riuscisse più a trattenere il dolore. Esplosi in un urlo anomalo, e il mio corpo iniziò a emanare luce. Ero diversa, e forse dentro di me lo avevo sempre saputo. La bambina che aveva provocato l'ustione ero io.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Apr 16, 2022 ⏰

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