La sveglia questa mattina squillava più lontana del resto.
Più lontana del rumore incessante del vento tra gli alberi e delle nubi vorticose; più lontana del pigolare dei soliti gabbiani che vagavano in cerca del primo raggio d'alba che avrebbe illuminato le strade di Portland; più lontana dei passi veloci e insonori di mio padre sul parquet; più lontana perfino del solito incubo che mi accompagnava ormai da anni e che, ultimamente, era sempre più frequente. Ci pensa lui a svegliarmi, prevedibilmente.
Tachicardia, mani sudate, pigiama attaccato alla pelle e capelli appiccicati agli occhi: tutto sempre uguale. L'allarme elettronico continua a crescere di potenza, finché sono costretta ad aprire gli occhi, sebbene fossi sveglia già da un po', cliccando di fretta il pulsante in rilievo per spegnerla.
Un silenzio pesante si posa come una coperta sulla città che non dorme mai, ma le tre del mattino fanno questo effetto un po' a qualunque cosa.
Nuvole scure si confondono con la notte ancora giovane e promettono pioggia; mi prendo un attimo per calmare i polmoni e scruto la città sotto i miei occhi con la consapevolezza di non sapere quando la rivedrò più.Sospiro, stanca. Giù, nel viale alberato che accompagna a braccetto la via in cui sono cresciuta, di cui conosco ogni angolo, la macchina di mio padre illumina l'asfalto con i fanali accesi. Manco solo io; il mio entusiasmo, che Richard – mio padre – ha provato a trasmettermi in queste settimane, e la voglia di ricominciare. Ricominciare un'altra volta, sì, come se fosse semplice.
Mi passo una mano tra i capelli mentre poso lo sguardo distratto sulle mensole spoglie e l'armadio vuoto accanto alla parete. Di mio, in questa stanza, rimane l'odore e le lenzuola di mamma.
Le ho volute tenere io, quando ci siamo trasferiti qui nell'Oregon, ma non penso siano adatte al clima rigido di metà novembre della East Coast. Non più, suppongo. Non mi ricordo molto di New York.
Poco male, quelle coperte non le voglio più: un altro ricordo doloroso da aggiungere alla lista; eppure non sembro convinta di questo mentre immergo nostalgica il naso nelle pieghe del mio letto, assaporando ancora una volta – un'ultima volta – l'odore di mamma. Sa di buono, sa sempre di buono.
«Per la miseria!», la voce di mio padre appare ovattata dal vetro della mia camera, ma riesco lo stesso a sentire il rumore di una scatola destinata al trasloco cadere sul vialetto.
Forse è meglio che mi alzi, mi ripeto mentre continuo a stare lì, a fissare i grattacieli, desiderando di essere al di sopra della realtà e delle cose come loro, tanto da toccare il cielo con un dito.Mi infilo in doccia con la voglia di restarci in eterno, per congelare la realtà che mi aspetta lungo l'autostrada, in una utilitaria come tante, percorrendo più di tremila chilometri con mio padre a fianco che cercherà di scusarsi, di rimediare, di infilare in quel silenzio pieno zeppo di rimpianti qualche stupida canzone che cantavamo quando facevamo i viaggi in macchina per gli Hamptons e c'era ancora la mamma.
Ripercorro mentalmente tutto quel che ho inscatolato e che verrà con noi in macchina prima del trasloco definitivo, quando l'acqua calda di colpo diventa gelida. Faccio un passo indietro di scatto, attaccandomi alla parete; il flusso inizia a perdere potenza, finché poche gocce rimangono a zampillare dal doccino.
Sapevo che ci avrebbero staccato l'acqua calda, come avevano fatto con la corrente qualche giorno prima, ma non pensavo che il tempismo sarebbe stato così perfetto. Una delle tante altre cose che ci hanno tolto, d'altro canto.
Ormai tutto questo sta finendo, mi dice sempre papà, e devo avere pazienza. Riluttante, sciacquo velocemente lo shampoo e schizzo fuori, tremante. Il vetro appannato riflette la mia figura, persa in un accappatoio troppo grande, e l'unica cosa che riesco a notare attraverso l'alone che si posa sullo lo specchio sono gli intrecci di capelli corvini che mi cadono sulle spalle.Tinti, ovvio, ma un sottotono ramato all'attaccatura inizia a vedersi sempre di più. Cancellare tutto quel che nella mia vita riconduce a loro è sempre stato un obiettivo per me, dopotutto. Con una manata spiccia lavo via l'alone sul vetro, incontrando il mio sguardo.
Mi vesto di fretta, mentre sento mio padre scaricare le ultime cose nel retro della Renault, esasperato.
Lo raggiungo, socchiudendomi la porta di casa dietro alle spalle e stringendomi nel golfino, mentre l'aria fredda trapassa la lana con facilità. Richard incrocia i miei occhi per sbaglio, è sempre stato così bravo ad evitare i miei sguardi tristi, eppure a volte ci casca ancora. Gli sorrido mesta, lui mi accarezza la testa con apprensione.«Hai i capelli bagnati, amore».
«Il phon è inscatolato, ma dubito che partirebbe se lo attaccassi alla presa. A proposito, ci hanno staccato l'acqua calda.» Gli faccio notare, indicando con un cenno casa nostra. O quel che lo è stata per dieci anni a questa parte.
Papà alza lo sguardo verso la mia camera, sibilando un qualcosa che non riesco ad udire.
«Hai portato giù tutto tu?» gli domando, indicando il retro dell'auto.«Ci ho messo un attimo. Ti conviene portare giù le valigie, partiamo tra poco e l'agente immobiliare sarà qui a breve per le chiavi.»
«Avevi detto che le lasciavamo ai Dawson». Avrei voluto salutarli, quei nostri strani vicini che ad ogni Natale mi regalavano dei maglioni dei grandi magazzini davvero improponibili, ma dovevo aspettarmi una ritirata da parte di mio padre: non è mai stato un granché con gli addii, ma di sicuro avrà scritto loro una lettera, come suo solito. Lo spero, almeno.
«Lasciamoli dormire. Sono quasi le quattro...»
«Hm-hm» mugolo, mentre lui mi avvolge nei suoi abbracci da orso. Si sente in colpa, lo so, ma non ho né la forza né la voglia di rassicurarlo un'altra volta.
D'altronde, io a mia figlia non avrei mai proposto nel giro di poche settimane di lasciare tutto quello che si era costruita per ritornare nel luogo che aveva ucciso sua madre. Mai.
«Vado a prendere le valige», mi stacco, sentendo il naso pungere e le lacrime scavare il mio sguardo.
Allontanandomi, tento di scacciare via il pensiero martellante che non mi stia lasciando poi molto alle spalle, oltre a un clima brumoso e i rimasugli di una vita che non ho più. Ela direbbe che sono sciocca a rimuginare sopra al latte versato; ha sempre amato i detti corroboranti.Mi affretto su per le scale che scricchiolano, appoggio le mani al mancorrente e ricalco col dito il punto in cui ho sbattuto la testa a otto anni cercando di saltare più gradini possibili; gioco con un filo che pende dalla tenda del bagno mentre raccolgo gli ultimi asciugamani da portare di sotto e mi accorgo che l'Oregon, questa casa, questa vita spoglia era tutto quello che mi era stato concesso di avere, di considerare mio e io non sono affatto pronta a lasciarmelo alle spalle.
Ed è quel che penso mentre le ruote dell'auto scivolano via dal mio vialetto, dalla mia via, superano la casa dei Dawson, imboccano Main Street e sfrecciano via da Portland, io con loro.
Come previsto piove, piove sempre quando fuggo via da un'altra città, e per quanto possa essere affezionata alla pioggia torrenziale dell'Oregon, nulla è comparabile all'alba di tre giorni dopo su New York, quando la luce si riflette sui giganti trasparenti all'orizzonte e la consapevolezza di essere piccolo, piccolo davvero, ti toglie il respiro.
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Harvey
RomanceHarvey: un cognome, un'identità. Nulla di più per Lilith, nulla di valore si cela dietro al fascino congenito di quella famiglia, tanto odiata e ammirata. Ma soprattutto, nulla la collega più a lei, al passato in comune, al sangue in comune. Ed é...