𝐓𝐎𝐔𝐂𝐇 𝐌𝐘 𝐒𝐂𝐀𝐑𝐒

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Ci vuole coraggio per essere coraggiosi, e Gi aveva avuto paura per troppo tempo. Credeva di non essere abbastanza forte, di dover soccombere per il resto della sua vita al male che annida l'animo delle persone. Da piccola si era illusa di poter affrontare qualsiasi ostacolo, complice anche suo padre che fin dalla nascita le ripeteva che era nata per essere coraggiosa, una donna dall'animo forte ed intrepido. E lei lo era stata fino a quella gelida notte di dicembre durante la quale perse per sempre un pezzetto di sé.

Le cicatrici sono dei segni infidi: ti illudono di essere guarite ma sono sempre là a ricordarti della loro presenza. Gi non aveva segni evidenti sul corpo, ma la sua mente e il suo cuore erano stati compromessi per sempre; nonostante gli anni trascorsi era incapace di lasciarsi alle spalle quegli incubi che la tormentavano quando la notte calava sulla terra e la luce accoglieva il mattino. Credeva ci fosse qualcosa di rotto dentro di lei che non potesse essere riparato, che fosse destinata a vivere una vita in cui non sarebbe mai più stata in grado di fidarsi del prossimo e di lasciarsi anche solo sfiorare da un altro uomo.

"Che pietà mi fa"

"Poverina dovrà essere stato uno shock per lei"

Questo la gente sussurrava alle sue spalle, credendo di poter sapere veramente cosa il suo cuore stesse provando. Non era pietà quello che le serviva, non si era sentita mai nemmeno per un solo secondo una persona pietosa, si guardava allo specchio e tutto ciò che vedeva era una persona debole, spenta, risucchiata della sua stessa linfa vitale.

Ancora riusciva a sentire le mani di colui che un tempo aveva anche chiamato amore, stringerle il collo, toccarla con avidità e possesso, violandola in tutto ciò che era stata, calpestando la sua anima e privandola della parola e di quella voce che codardamente aveva zittito mortificando così, non solo il suo corpo, ma anche il suo nome: Gi non era più quella persona coraggiosa che il padre le aveva fatto credere di essere, o forse non lo era mai stata.

E così si ritrovava per l'ennesima volta a piangere, scossa dai tremori, con i ricordi vividi di quella notte a tormentarla mentre sdraiata nella vasca si abbracciava le gambe per cercare di cancellare quei segni invisibili agli occhi di chi non riusciva a comprendere.

Kim Namjoon era vissuto in un mondo dove la violenza era all'ordine del giorno, dove per sopravvivere dovevi impugnare sempre il coltello dalla parte del manico.

Se non eri abbastanza forte, soccombevi.

Se esitavi, soccombevi.

Se mostravi compassione, soccombevi.

E così, per poter aiutare la sua famiglia, dovette rinunciare a sé stesso, a tutto ciò che lo rendeva umano.

Ogni giorno si ripeteva sempre uguale, con l'unica certezza che una volta rientrato a casa, con nuove ferite a riempire il suo corpo, avrebbe potuto garantire un giorno in più a sua madre e sua sorella, che inconsapevoli di tutto guardavano il figlio autodistruggersi.

Namjoon era convinto di poter sottostare a quella vita per tutto il tempo che sarebbe servito a pagare le cure per la madre e far crescere la sorellina, ma una sera tutto cambiò capovolgendo la sua intera esistenza; doveva essere un semplice incontro come tutti gli altri, dove avrebbe messo al tappeto il suo avversario e incassato la somma pattuita.

Quella sera però al locale girava un'aria diversa dal solito, più movimentata quasi asfissiante, ma non se ne preoccupò più di tanto: voleva solo poter mettere fine a tutto e tornare a casa, dove si sarebbe potuto rifugiare in quella menzogna che non sapeva neppure se poter chiamare ancora vita. Così salì su quel ring lercio di tutto il sangue stagnante che non erano mai stati in grado di togliere, pronto ad affrontare Leon, nome che era stato assegnato al suo sfidante, così come avevano fatto con lui anni prima; K Monster lo avevano soprannominato, un nome che non voleva gli appartenesse ma che col tempo aveva quasi sostituito il suo di nascita.

ᴛᴏᴜᴄʜ ᴍʏ sᴄᴀʀs | ᴋɴᴊDove le storie prendono vita. Scoprilo ora