Avevo letto una frase, un giorno qualunque di un pomeriggio di febbraio, che diceva: "Ti ho venduto il mio corpo e la mia anima." Avevo immaginato una bancarella, di quelle che si vedono in centro o alle ferie, e due oggetti esposti, confezionati in pacchetti con sopra un cartellino: in uno con su scritto "corpo" e nell'altro "anima". Quando la gente si sarebbe avvicinata, avrebbe domandato: "A chi appartengono?". La proprietaria della bancarella - e degli oggetti in vendita - avrebbe risposto: "A me."
Riuscivo a vedermi lì, nella bancarella. Riuscivo a vedere te come acquirente, soltanto che in cambio non avevo voluto soldi. Tu sapevi bene che un regalo non si rifiutava mai, così avevi preso ciò che offrivo e l'avevi portato a casa, l'avevi appoggiato sul tuo comodino, forse l'avevi scartato o forse no, fatto stava che sapevo per certo che dopo un determinato periodo di tempo ti eri dimenticato di possederlo e l'avevi lasciato accumulare insieme a tanto altro in tuo possesso.
Non ero ben sicuro, però, che avessi preso entrambi corpo e anima. Il punto era che io non ti avevo offerto entrambe le cose, e nemmeno soltanto uno dei due oggetti. Quasi mi veniva da pensare che mi avessi derubato o ingannato.
Non avevo mai capito molto di te, questo era il punto. E nemmeno di me. Avevamo sempre parlato in silenzio, io e te, così che quando ti immaginavo venire nella mia bancarella, tu non aprivi bocca. Mi guardavi soltanto con quei tuoi occhi neri, accennavi un sorriso, ti stampavi un punto interrogativo sul viso ma non osavi proferire parola. Così io.
Era tutta colpa del silenzio. Ci sarebbe da dare la colpa a me o a te o a entrambi, ma scaricarla sul silenzio mi sembrava più lecito.
Ogni mattino, ogni pomeriggio od ogni sera, quando entravo in camera tua e mi sedevo sul tuo materasso pensavo: "Ora parlo".
Se non avessi trovato le parole, c'era una seconda opzione: "Ora agisco".
Invece no. Il silenzio mi teneva incatenato in un pozzo nel quale si trovava anche la vergogna, il timore, il passato, il futuro.
Era tutta una fantasia la questione della bancarella. Se l'avessi allestita davvero non ti saresti nemmeno presentato. A dire la verità, io nemmeno l'avrei allestita dal principio.
A entrambi era sempre piaciuto far finta di nulla, non soltanto tra noi ma per qualsiasi cosa accadesse nella nostra vita. Ci nascondevamo nelle mura della tua stanza, a casa dei tuoi genitori. La tua piccola cameretta si trovava alla fine del corridoio stretto e breve appartenente a un appartamento al nono piano in un quartiere di Palermo. Il tuo letto si trovava al fianco della finestra e della scrivania, le pareti erano tappezzate di poster di band che ascoltavi sul giradischi che condividevi con tua sorella. Il tuo materasso era a una piazza, ti sdraiavi su questo mentre accendevi una sigaretta lasciando la finestra spalancata. Io ti guardavo, osservavo il fumo circondarci. La porta della stanza veniva chiusa, le uniche parole erano quelle delle canzoni che riproducevamo. Mi sdraiavo al tuo fianco, ci stringevamo, il tuo fianco toccava la parete. Le tue dita mi passavano il drummino e lo afferravo sfiorando la tua pelle. Tenevi il posacenere sopra lo stomaco. Alle volte tu canticchiavi o ti scatenavi completamente alle parole della canzone. Alle volte queste le sovrastavi con altri discorsi. Io ti ascoltavo sempre cercando di non pensare a come i nostri corpi, anche senza toccarsi, avessero un qualcosa.
Una notte avevamo "parlato" coi corpi. Non avevamo abbattuto il silenzio, questo per certo. Era stato come se finalmente ti fossi deciso a presentarti alla mia bancarella; avevi osservato i prezzi e avevi detto: "Non lo so, faccio un giro e ci penso, in caso torno." Si sapeva che fosse una bugia: non saresti tornato, volevi soltanto essere cortese.
Quella notte era stato come se la tua sofferenza - il peso del silenzio, di ciò che nascondevi, e la coscienza di avere la possibilità di infrangerlo per sempre - fosse penetrata in me dalle tue labbra, dai tuoi polpastrelli che avevano cominciato a navigare sopra le mie cicatrici; era come se le tue dita riaprissero la ferita con quel tocco dolce; sangue non usciva, ma anche se fosse accaduto non ne sarei rimasto sorpreso, solo compiaciuto, solo desidero che lo facessi ancora.
Poi c'eravamo ritirati, come desiderosi di acquistare il prodotto ma dopo aver guardato il cartellino c'eravamo spaventati: tutto ciò non era alla nostra portata, per quanto lo volessimo.
Nulla era mai iniziato e nemmeno finito.
Avevamo sempre scelto di non parlare, di non avere, di accontentarci.
Perché non sapevamo vivere le cose come tutte le persone normali? Perché auto-sabotarci, non concederci, limitarci, ambire al dolore?
Era forse tutto più eccitante se di mezzo c'era qualche pena. La vita era più interessante, un'esistenza interamente felice pensavamo potesse essere persino noiosa.
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Senza fine
General FictionMai nulla finisce davvero, ogni storia ha un seguito con o senza la nostra partecipazione. Raccolta di brevi racconti senza un protagonista preciso.