Capitolo Uno - Crisantemi

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Dicevano sempre che avevo un macabro passatempo o, per come lo vedevano loro, un'inquietante ossessione. E questo perché mi spingevo oltre il cancello del cimitero, appena uscita di casa. Passavo per ogni fila e settore dei giardini interni, e delle stanze murate da lapidi, targhe e piccoli santuari. Poi individuavo le tombe senza fiori e con i vasi caduti a terra, rotti o vuoti, e li rimettevo a posto, riempiendoli di crisantemi e ciclamini. Inverno ed estate, sempre l'abituale passeggiata. I custodi e i visitatori mi ignoravano. Dovevano trovarmi estremamente insolita. E lugubre. Tuttavia continuavo, senza preoccuparmene, e sovrappensiero immergevo un gambo in una brocca sopra la pietra, minuscola proprio come il corpo seppellito al di sotto. Chinata sulle ginocchia, col viso parallelo alla lastra a terra, lessi la sua iscrizione. Lucas aveva vissuto sei anni. E così Sarah, affianco a lui. Mi piaceva immaginare che fossero stati amici e che, sottoterra, stessero giocando a nascondino. Posai un fiore per ciascuno sul granito e mi alzai. Regalatevi questi fiori, per il compleanno. Erano morti a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro.

Mi allontanai da loro e continuai l'esplorazione. Prima di uscire, aveva nevicato per qualche ora, e per questo le statue e le pietre si erano rivestite di manti di gelo, riflettendo e deformando chi vi passava accanto. La statua di un angelo della morte mi indicava col dito, con una corona di ghiaccio sulla testa. Gli andai incontro. I suoi occhi anneriti e punteggiati dalla muffa promettevano la cattura del mio respiro. Allora feci ciò che mi era più facile fare: gli misi un ciclamino viola tra le dita, accarezzandogli le crepe sulla pelle chiazzata di verde e giallo muschio. Anche la morte vuole un po' d'amore. Subito dopo, passai a un altro settore, quello più centrale, decorato da un maggior numero di monumenti funebri e con più persone. Mentre una parte di me cercava le lapidi abbandonate, l'altra osservava i visitatori e il loro modo di parlare con loro. Chi si sedeva davanti all'epitaffio e restava a fissarlo per ore, chi invece mormorava ingarbugliando le mani fra loro, a disagio.

E poi, uno come quello là, infondo, dove stavano le sepolture più recenti. Era in piedi, con la testa chinata verso il basso, sopra il tombale immerso nella terra bianca. L'intera figura aveva una forma geometrica, spigolosa, come l'angolo aguzzo di un foglio di carta. Le sopracciglia strette e abbassate. Gli occhi chiusi. Le labbra serrate e screpolate, come se le avesse date in pasto al gelo dell'inverno. E le mani in tasca, ben nascoste. Ora gli ero abbastanza vicina da notare il cappotto scuro ben stretto al corpo; gli arrivava fino ai piedi come un manto. Aguzzai la vista e notai la base del soprabito umida e brillante di ghiaccio: si era trascinato il leggero strato di neve fin lì.

Guardai poi la tomba davanti a lui. Non c'era alcuna scritta. Una perfetta lastra di pietra intoccata, liscia e lucente. Nessun fiore o segno d'affetto. Lui pareva non avermi sentita arrivare e continuava a tenere il viso nascosto e pesante, con un'espressione più dura del marmo. E quindi non vidi nulla di male nel prendere l'ultimo fiore che mi rimaneva e posarlo sulla lapide, cercando di fare meno rumore per non disturbarlo. Quando mi rialzai, lui mi aveva preso il polso con uno scatto. I suoi occhi spalancati mangiavano i miei. Sobbalzai, indietreggiando sul posto. Vedendo la mia espressione, infine mi lasciò andare. Gli occhi fermi, ma la bocca schiusa come se stesse recuperando il fiato di una corsa infernale.

«Non ho chiesto dei fiori.» La secchezza della sua voce mi immobilizzò. Raramente avevo sentito un uomo scandire le parole con una chiarezza tanto assordante e prepotente.

«Dio, mi scusi» mi affrettai a dire. Avevo ancora il cuore che mi tremava. «Non lavoro qui, ma pensavo potesse essere carino lasciare un fiore anche su questa lapide. Non ha nemmeno le scritte. Pensavo che...» Mi interruppi. Non volevo apparirgli strana, anche se già strano appariva lui. E comunque, già mi pentivo di aver solo avuto l'idea di farlo.

«Pensava che cosa?» Avvicinò il viso, stringendo i denti. La linea della mandibola si mosse ed emerse sotto la pelle olivastra. Il mento e le guance attraversate da un cenno di barba scura.

«Che potesse, non lo so...» abbassai la testa, bollente per l'imbarazzo. «Farlo stare meglio, ecco.»

«Chi?»

«La persona sepolta qui.»

«Anche i fiori recisi e messi nei vasi sono morti» mi guardò a lungo. Il viso di ferro. «Donarli ai defunti significa ridere di loro» si chinò, prendendo il fiore con due dita, e lo fece ruotare fra l'indice e il pollice. Pensieroso. «Cambiarli costantemente, sostituendoli a quelli appassiti, è la crudele e derisoria dimostrazione di ciò che non si può fare con le persone.» Schiacciata dalla vergogna e dall'irritazione per il disaccordo, strinsi i pugni, coprendogli la vista del mio volto. Mi celavo con le ciocche brune dei capelli, sperando di trovare un modo per andarmene senza sembrare scortese. In quel silenzio assurdo, tra il mio respiro agitato e il suo più padrone di sé, apparve quello stesso fiore sotto i miei occhi, trattenuto dalla sua mano.

«Ma è un bel fiore e vorrei tenerlo per me, se non le dispiace.» Riemersi dalla angoscia, con gli occhi sgranati. Quell'uomo cercò di accennare un sorriso, ma la sua posa rimaneva troppo rigida e impostata per ignorare la forzatura della sua espressione. E gli occhi, di verdi riflessi, erano distanti e assai infelici. Mi osservò, proprio come aveva fatto con quei petali. «Come si chiama?»

«Oh» strabuzzai gli occhi, sorpresa dalla domanda. Nessuno si era mai informato di me, al cimitero. Ebbi un brivido di allegria. «Vivielle!»

«Intendevo il fiore.»

«Ah!» Ridacchiai. Stupida. «E' un crisantemo.» Dissi. Non ero solita parlare con estranei, specialmente con quel carattere riservato, identico al mio. Eppure continuavo a vomitare lettere. Non riuscivo a fermarmi. «Ci sono decine di varietà, sia per la forma che per il colore. In più sono perfetti per i cimiteri perché resistono molto al freddo, e...»

«Lei non sembra fare lo stesso» mi interruppe, brusco. «Sta tremando.» Con un'occhiata, indicò le mie dita. Stavano traballando nell'aria, pallide e ossute. Le gettai nelle tasche dei pantaloni, distogliendo la sua attenzione da loro con una breve risata. Non avevo freddo. Erano l'ansia e i tremori che s'impadronivano del mio corpo non appena aprivo bocca con qualcuno. «Ho dimenticato i guanti a casa e questo è il risultato. Dovrei andarci a dormire per non scordarmeli!» Risi da sola, evitando il suo sguardo. Mi strinsi in un abbraccio, dondolando lievemente col resto del corpo, mentre i miei occhi fuggivano dai suoi. Troppo intensi. Troppo invadenti. Volevo andarmene e non parlargli più; il peso della sua presenza era per me incredibilmente estenuante. C'era una profondità nel suo modo di parlare e di muoversi, che avevo paura di caderci dentro e non uscirne più.

«Bene» feci un passo in avanti, passandogli affianco, per far intendere che lo stavo salutando. «La lascio solo» guardai la sua mano, «e mi scusi ancora per il fiore.»

Con la coda dell'occhio, l'avevo visto girarsi e seguirmi con lo sguardo. «Ne porterà altri?»

Lo avevo già alle mie spalle, ma la sua voce mi aveva raggiunta come se l'avessi avuto con le labbra all'orecchio. Mi voltai. La sua figura nera era inchiostro su carta, rispetto al paesaggio nevoso e inclemente del cimitero. Stabilmente eretto e nitido; una statua d'ossidiana sorta dalla terra. Maestoso e terrificante. Osservai il crisantemo rosso che reggeva ancora, la mano a coppa per tenere i petali e il gambo verso il basso fra due dita, come un calice di vino.

«Lei li vorrà tenere per sé?» Gli chiesi, gentilmente ironica.

Lui sorrise, come poteva sorridere solo un volto modellato da aghi e lame. Si portò il fiore alle narici, nascondendo il sorriso dietro di esso, e chiuse gli occhi sentendone il profumo. Quando li riaprì, mi rispose. La sua voce affievolita dai petali premuti sulle labbra.

«Ovviamente.»



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Ehilà!

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L'uomo della tomba senza nomeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora