Capitolo Tre - Notte al cimitero

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Cadevo. Cercavo di piantare le unghie nelle pareti terrose di quell'abisso, ma si sgretolavano tra le dita con una facilità crudele. Urlavo, senza sentire la terra sotto i piedi, con la testa che pregava verso l'alto per vedere la superficie. Un'uscita qualunque. Ma c'era il vuoto, sia alla fine di quella colossale gola in cui precipitavo, e sia sopra di essa. Ero in un limbo, intrappolata fra mura rocciose che mi scorrevano rapidamente davanti. Il grigio si interrompeva con rampicanti accesi di verde, che si estendevano a macchie sulla pietra. Continuavo a scendere, gridando, con le mani tese in avanti per la disperazione, mentre le piante e il grigio si alternavano di fronte a me. I capelli mi avvolgevano completamente il volto, creando una tenda sfibrata da cui tutto appariva a tratti. Le gambe e le braccia si agitavano per toglierli, per trovare un appiglio. E intanto scalciavo, picchiavo l'aria per intimarla di fermarsi, di trovare un modo per bloccarsi e, con lui, di fermare anche la mia caduta. Però non mi ascoltava, e quasi con un ghigno mi spingeva sempre più verso il fondo. Lacrime cadono e bagnano radici, sibilava quel vento selvaggio. Infestava le orecchie. Non cresceranno, Vivielle. Proseguiva, brutale, a scorrermi addosso mentre cadevo. Avevo gli occhi spalancati verso un punto fisso nell'oscurità; la bocca aperta ma senza più la voce per strillare e chiedere aiuto. Fiori morti in vasi di cemento, aggiunse. Non potevo fare altro che lasciarmi trascinare verso la fine di quel buco infinito. Verso l'illusione di un dio. Illusione? Un dio? Ma lui nasconde La falce. Tenni sospeso il fiato. Il vento parlò ancora. La falce, Vivielle.


Era questo che avevo provato gettandomi dentro gli occhi di quell'uomo e d'allora, non ero più riuscita a pensare ad altro. Quel verde profondo m'infestava, lo trovavo ovunque. Nascosto nei fiori e nei prati sepolti dalla neve e dalla pioggia; persino nelle sfumature verdognole dei gusci delle chioccette che si trascinavano sui marmi delle tombe. E proprio mentre ci ragionavo, stavo filtrando delle foglie di menta, lasciando scendere le gocce di colore dentro un flaconcino di vetro opaco. Se il blu era sempre stato la mia base per dipingere, ora il verde l'aveva ferocemente rimpiazzato. Il suo verde. Mi dannavo ogni volta per cercare di replicare la sua tonalità, ma era impossibile. C'erano gli interi cicli delle stagioni nel suo sguardo: la malinconia dell'autunno, la freddezza dell'inverno, la dolcezza della primavera e la speranza dell'estate. Tutte che si scontravano fra loro perché una ne emergesse vittoriosa, finché, alla fine, sola una ci riusciva.

L'inverno. Il gelo, i brividi, il dolore del ghiaccio e la malizia della notte, sempre pronta a coprire prima il mondo. E la tenebra che si generava al calar del sole, si accucciava nelle sue pupille, addolcita e confortata dalle iridi. Nello sguardo, incapace di mascherarlo, la morte sfiorava in un bacio le labbra della vita.

Il tempo riprendeva a scorrere e così anche il mio respiro, rubato da quell'uomo. Anche perché, di uomo si trattava. Io avevo appena ventidue anni. Avevo timore delle persone e mi rifugiavo nella quotidianità, nei sentimenti più semplici e pacati. La solitudine mi aveva accarezzata la guancia, presa per mano e fatta camminare verso un'affascinante dimora, non troppo lontana dal cimitero. In realtà, si trattava di una vecchia serra di un negozio di piante, situato più verso la città. Il proprietario, anni prima, aveva chiuso l'attività, fregandosene delle scartoffie e i documenti per la vendita, e lasciando andare tutto in malora. Lo avevo incontrato proprio mentre stava portando via le ultime cose del negozio. Ricordo che si era ritratto dall'orrore quando ero entrata. Ricordo, anche se in maniera confusa, il mio volto sepolto nella sporcizia, con le ciocche di capelli appicciate alle guance, alla fronte e anche sul collo. La pelle rossa e ricoperta di lividi. Ricoperta di sangue. Potrei avere dell'acqua, per favore? Gli avevo sussurrato. Non sentivo più nemmeno la lingua in gola. Paralizzato dietro il bancone, con ancora una scatola in mano, mi aveva studiata a lungo, per poi lanciarsi nel bagno e portarmi un bicchiere pieno fino all'orlo. Non aveva chiesto spiegazioni sul mio stato, e anche se l'avesse fatto, non gliele avrei potute dare comunque. Più provavo a ricordare ciò che era successo, meno ci riuscivo. La mia mente non voleva riportare a galla ciò che era avvenuto prima del mio arrivo in quel negozio, per nulla al mondo. Era come se il mio passato non volesse esistere, e così la Vivielle di quel tempo.

L'uomo della tomba senza nomeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora