INTERLUDIO 1 ABRAHAM SETRAKIAN

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Il vecchio era da solo nell'ingombro locale vendite del suo banco dei pegni nella Centodiciottesima Est, a Spanish Harlem. Aveva chiuso da un'ora e sentiva lo stomaco brontolare, eppure era riluttante a salire di sopra. Tutte le saracinesche erano abbassate sulle porte e sulle vetrine, come palpebre d'acciaio, perché la gente della notte aveva reclamato le strade. Di notte non si usciva.

Andò al pannello elettrico dietro il bancone dei prestiti e oscurò il negozio, lampada dopo lampada. Era di umore malinconico. Guardò il locale, gli espositori di cromo e vetro screziato. Gli orologi da polso in vetrina su feltro anziché su velluto, i pezzi in argento di cui non riusciva a liberarsi, i piccoli oggetti d'oro e brillanti. I servizi completi da tè sotto vetro. I cappotti di pelle e le pellicce ora controverse. I nuovi riproduttori di musica che si vendevano velocemente e le radio e i televisori che non si prendeva più la briga di accettare. E c'erano, qua e là, dei tesori: un paio di magnifiche casseforti antiche (foderate di amianto, ma bastava non ingerirlo); un videoregistratore Quasar degli anni Settanta, di legno e acciaio, delle dimensioni di una valigia; un antico proiettore per film da sedici millimetri.

Ma era poca cosa rispetto ai mucchi di robaccia difficile da smerciare. Un banco dei pegni è in parte bazar, in parte museo e in parte reliquiario del quartiere. Il gestore fornisce un servizio che nessun altro può offrire. È il banchiere dei poveri, uno a cui la gente può rivolgersi per avere in prestito venticinque dollari senza pensare

a debiti precedenti, occupazione, referenze. E, nella stretta di una recessione economica, venticinque dollari sono soldi per molti. Venticinque dollari possono significare la differenza fra un tetto sulla testa e un cartone sotto i ponti. Venticinque dollari possono rendere disponibile un medicinale per prolungare la vita. Una persona, purché abbia qualcosa di valore da dare in pegno, può uscire dalla porta della bottega con soldi in mano. Magnifico.

A passi pesanti il vecchio andò al piano superiore, spegnendo altre lampade mentre saliva. Aveva la fortuna di essere proprietario del fabbricato, comprato nei primi anni Settanta per sette dollari e qualche spicciolo. Be', forse non per così poco, ma nemmeno per molto di più. A quel tempo bruciavano gli edifici per scaldarsi. Per Setrakian il Knickerbocker Loans and Curios (nome nato col negozio) non era mai stato un mezzo per arricchirsi, ma piuttosto un canale, un punto d'ingresso nel mercato sotterraneo pre-Internet della città crocevia del mondo per una persona interessata in arnesi, manufatti, oggetti artistici e altre cose arcane del Vecchio Mondo.

Trentacinque anni a mercanteggiare per gioielli di scarso valore durante il giorno e, nello stesso tempo, ad ammassare arnesi e armamenti di notte. Trentacinque anni ad aspettare il momento buono, a fare i preparativi nell'attesa. Ora il suo tempo stava per esaurirsi.

Alla porta, prima d'entrare, toccò la mezuzzah - l'astuccio posto sullo stipite - e si baciò la punta delle dita deformi e adunche. L'antico specchio nel corridoio era così graffiato e rovinato da obbligarlo ad allungare il collo per trovare una parte riflettente in cui guardarsi. I capelli candidi come alabastro, che dall'alta fronte piena di rughe gli scendevano sulle orecchie e fino al collo, avevano da tempo bisogno di un taglio. La faccia continuava a cedere, mento, lobi delle orecchie e occhi soccombevano a quella prepotente della gravità. Le mani, fratturate e guarite male tanti decenni prima, si erano incurvate in artritici artigli che lui teneva sempre nascosti in guanti di lana cui aveva tagliato la punta delle dita. Eppure, sotto quella facciata in sgretolamento, c'era un uomo forte. Ardente. Saldo.

Il segreto della sua fonte di giovinezza interiore? Un solo,

semplice elemento.

La vendetta.

Molti anni prima, a Varsavia e in seguito a Budapest, c'era un uomo di nome Abraham Setrakian, uno stimato professore di letteratura e folklore dell'Europa orientale. Un superstite dell'Olocausto che aveva superato lo scandalo del matrimonio con una sua studentessa e il cui campo di studi l'aveva portato in alcuni degli angoli più tenebrosi del mondo.

Adesso, anziano titolare di un banco dei pegni in America, era sempre tormentato da un lavoro non concluso.

Aveva ancora un po' di un'ottima minestra, un delizioso brodo di pollo con kreplach - bocconcini di carne - e pasta fresca all'uovo, che un cliente gli aveva portato addirittura dal Liebman's Kosher Deli, nel Bronx. Mise nel microonde la scodella e con le dita contorte disfece il nodo allentato della cravatta. Attese il segnale acustico, poi portò sul tavolo il piatto caldo, prese un tovagliolo di lino (mai di carta!) e se lo infilò per bene nel colletto.

Soffiare sulla minestra era un rito confortante, rassicurante. Quando era bambino, ricordò - ma era più di un semplice ricordo, era una sensazione, un sentimento -, la nonna, la sua bubbeh, soffiava per lui sulla minestra, seduta al suo fianco davanti al traballante tavolo di legno nella fredda cucina della loro casa in Armenia. Prima delle disgrazie. Il vecchio alito della nonna sollevava il vapore e lo spingeva sulla sua giovane faccia. C'era una silenziosa magia in quel semplice atto. Come soffiare la vita nel bambino. E in quel momento, mentre soffiava, ormai vecchio anche lui, guardò il suo fiato prendere forma dal vapore e si domandò quanti di quei soffi gli rimanessero.

Tenne il cucchiaio, preso da un cassetto di posateria spaiata, fra le dita deformi della sinistra. Vi soffiò, increspando la piccola quantità di brodo, prima di portarselo alla bocca. Il gusto andava e veniva, le papille stavano morendo come vecchi soldati, vittime di decenni di fumo di pipa, un vizio da professore.

Trovò il sottile telecomando per l'antiquato televisore Sony, un modello per cucina rifinito in bianco; lo schermo da tredici pollici si

accese illuminando un po' di più la stanza. Lui si alzò e andò alla dispensa, posando le mani sulle pile di libri che riducevano il corridoio a una stretta passatoia di tappeto logoro - i libri erano ovunque, in alti cumuli contro le pareti; molti li aveva letti, ma da ciascuno di essi non si sarebbe mai separato -, tolse il coperchio alla scatola di latta per torte e recuperò l'ultimo pezzo del buon pane di segale che aveva tenuto da parte. Portò in cucina la pagnotta avvolta nella carta, si accomodò pesantemente sulla sedia imbottita e cominciò a spezzarla in piccoli bocconi, mentre si godeva un'altra tiepida sorsata del delizioso brodo.

A poco a poco l'immagine sullo schermo reclamò la sua attenzione: un jumbo jet parcheggiato su una pista chissà dove, illuminato come un pezzo d'avorio su un feltro scuro da gioielliere. Si infilò gli occhiali dalla montatura nera che gli pendevano sul petto e strizzò gli occhi per leggere la scritta nella parte inferiore dello schermo. L'emergenza di oggi si verificava dall'altra parte del fiume, nell'aeroporto JFK.

Il vecchio professore guardò e ascoltò, concentrato sull'aereo dall'aspetto incorrotto. Un minuto, due, poi tre, mentre la stanza intorno a lui svaniva. Era impietrito, quasi estasiato dal servizio giornalistico: era rimasto con il cucchiaio di minestra ancora nella mano non più tremante.

L'immagine televisiva dell'aereo inattivo giocava sulle lenti dei suoi occhiali come un futuro previsto. Il brodo nella scodella si raffreddò, il vapore svanì, morì, la fetta di pane di segale fatta a pezzi rimase dov'era.

Lui capì.

Tic tic tic.

Il vecchio capì...

Tic tic tic.

Le mani deformi cominciarono a dolergli. Ciò che aveva davanti agli occhi non era un presagio, era un'incursione. Era l'atto stesso. La cosa che aveva atteso. Per la quale si era preparato tutta la vita, fino a quel momento.

Il sollievo provato inizialmente - per essere ancora in vita

all'arrivo di quell'orrore, per avere una possibilità di vendetta all'ultimo istante - fu subito sostituito da una paura acuta, dolorosa. Le parole uscirono dalle sue labbra come una folata di vapore.

«Lui è qui... Lui è qui...»

LA PROGENIEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora