1-L'ARTE È LIBERA

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"Basta. Mi sono rotto il cazzo!"

Le mie urla incessanti rimbomano in quest'aula vuota.

Mi soffermo qualche secondo sulle mie mani, tremanti e imbrattate di colore, e velocemente sposto lo sguardo sul pennello a terra, accanto ai tubetti di colore ad olio.
Ho il fiatone e il mio petto non fa altro che alzarsi ed abbassarsi ad un ritmo decisamente irregolare; chiudo gli occhi, premendomi le mani ai lati della testa, in disperato tentativo di riprendermi.

Strizzo forte le palpebre e torno a focalizzarmi sulla mia tela, davanti a me; è totalmente bianca, se non per qualche segno veloce di grafite qua e là.
Afferrò per l'ennesima volta il pennello e lo striscio con violenza sulla tavolozza, così che le setole catturino più colore possibile; avvicino lentamente la punta alla stoffa, sempre di più, centimentro per centimetro, percependo piccole gocce di sudore che si formano sulla mia fronte corrucciata.

E poi mi blocco, di nuovo.

"Arghhhh!" grido con tutto il fiato che mi riempie i polmoni e, con un gesto rapido scaravento il pennello contro la parete davanti a me, ruggendo per la frustrazione.
Il debole spezzarsi del legno giunge alle mie orecchie; sospirando, ritiro le gambe al mio petto e infilo la testa fra le ginocchia, chiudendomi in una posizione fetale tanto ridicola quanto calmante.

Comincio a dondolarmi avanti e indietro, abbandonandomi ad un pianto lento e struggente; il mio cuore batte, eppure lo sento più vuoto e rimbombante di una cava infondo al mare.
Vorrei che tutto ciò finisse. Vorrei rincominciare da capo.
Vorrei tornare a dipingere con la spensieratezza e allegria di tanti mesi fa.

Ero rimasto incastrato in una realtà totalmente diversa da come l'avevo immaginata, e senza rendermene conto vi ero affondato ogni giorno sempre di più, sprofondando lentamente nelle sabbie mobili.
Ricordavo ancora i primi mesi, quando ero da poco diventato ufficialmente una matricola al Chealsea College of Arts; allora ero davvero felice: giravo per i corridoi sfoggiando orgoglioso il mio badge appeso al collo, che recitava il mio nome, Jeon Jungkook; elettrizzato all'idea di questo nuovo percorso, e pieno di sogni che mi sfarfallavano senza sosta nella testa.

Concedo ad un'ultima lacrima di terminare il suo viaggio sulla mia guancia, per poi gocciolare sulla mia maglia; poi sbuffando mi alzo in piedi e raccolgo i resti del pennello a terra, consistente ora a solo due pezzi di legno sconnessi.
Qualche tempo fa, vedere i miei preziosi utensili ridotti in questo modo mi avrebbe fatto stringere il cuore.
Ora non provavo più assolutamente nulla.

Afferro la mia giacca appesa allo sgabello e lascio la stanza.

Esco dall'edificio, rabbrividendo all'istante per l'aria gelida e invernale che soffiava; avvolgo la sciarpa di flanella al mio collo, stringendola in un nodo più stretto, e mi incammino per le strade grige e bagnate di Londra.
Una pioggierella sottile, ma comunque fastidiosa, si insinua nelle pieghe dei miei vestiti, punzechiandomi nei pochi centimentri la pelle scoperta; continuo imperterrito il mio passo sul marciapiede, mentre le macchine sfrecciano al mio fianco.

Non ho alcuna intenzione di chiamare un taxi, men che meno prendere la metro; voglio, con tutto me stesso, affrontare questo tempaccio, e lasciare che i miei pensieri martellanti si mescolino alla pioggia altrettanto costante.
E poi credo non mi sia rimasto più nemmeno un quattrino da sbattere contro un altro.
Alzo la testa al cielo e un debole sorriso, forse il primo dopo giorni, mi sfugge sulle labbra; il copertone di nuvole si sta lentamente lacerando e qualche raggio di sole evade in silenzio, colorando il cielo d'arancio.

Abbasso un poco lo sguardo dal cielo, soffermandomi sulle strade e sugli edifici davanti a me.
Il tutto sembra il quadro di un pittore impressionista, che lascia pennellate umide, spesse, e casuali sulla sua tela variopinta; le strade appaiono lucide d'argento vivo e le persone sono piccole chiazze grigiastre, che avanzano a braccietto sotto ombrellini di plastica trasparenti, gli edifici sono spennellate di rosso mattone e il cielo incornicia questo quadro meraviglioso, in un trionfo di colori caldi.
Mi viene quasi da piangere.

"Ehi ragazzetto, vuoi un ritratto?"

Una voce roca e profonda mi entra nelle orecchie, scuotendomi dalla testa ai piedi; mi giro velocemente.

In un angolo della strada, un ragazzo sui venticinque anni se ne sta appolaiato su uno sgabello, circondato da quadri di ogni sorta e dimensione; il suo volto é sereno e disteso, mentre con un pennello sottile lascia veloci stoccate di colore, su una tela più grande delle altre.

Mi avvicino un po' di più e lui sposta la sua attenzione su di me, abbandonando il suo lavoro.

"allora?" mi fa, con un ghigno divertito; i suoi occhi rispendono di luce propria, scuri come la cioccolata fondente, magnetici come mai ne ho visti in tutta la mia vita.
Faccio un cenno di assenso e mi offre uno sgabello, simile a quello dove se ne sta seduto lui; mi siedo, mettendomi le mani sotto le cosce, per fermarne l'improvviso tremore.

Si prende qualche minuto per osservarmi; mi vengono i brividi: sento il suo sguardo accarezzarmi la pelle, esplorare ogni centimentro del mio volto, probabilmente pallido per lo stress, soffermarsi sui miei occhi per una manciata infinita di secondi.
Con il pennello ben saldo in mano, comincia a tracciare segni sulla tela ancora immacolata; i movimenti del suo polso sono eleganti e precisi, ogni tanto mi lancia qualche occhiata fuggente per poi tornare a concentrarsi sul suo lavoro.

Percepisco la luce arancio-rossa del tramonto affievolirsi sempre di più, lasciando il posto ad un principio di tenebre, che rendono Londra spettrale, ma affascinante al tempo stesso; tira un venticello che mi fa rabbrividire, e smuove le morbide ciocche castane del ragazzo davanti alla tela.

Ha un viso così particolare: due occhi dal taglio asiatico, ma comunque grandi, concentrati a tratti su di me o sul dipinto; la sua mascella è pronunciata e tenuta leggermente in avanti, quasi per una velata arroganza; e ha labbra scarlatte come se imbrattate di succo di ciliegia, tenute un poco contratte in una smorfia di concentrazione.

Una folata di vento più tagliente delle altre mi fa accapponire la pelle, da testa a piedi; mentre lui, che pare non essere in grado di percepire o vedere altro intorno a se, tranne che il suo pennello, rimane impassibile e continua a dipingere.
Vorrei chiedergli se manca molto, ormai il sole è scomparso del tutto e sulle strade sta calando l'oscurità, ma ho paura di disturbare la sua concetrazione perfetta; mentre lavora con i colori, pare essere asceso ad una dimensione totalmente superiore ad ogni cosa che lo circonda, e rimane con lo sguardo incollato sulla sua tela, indipendentemente da tutto e tutti.

"Finito"
La sua voce mi risveglia dallo stato di trance in cui ero entrato, in attesa che finisse il dipinto, e alzo gli occhi.
Stacca delicatamente la tela dal cavalletto, come se fosse fatta di vetro soffiato, e me la porge; ha qualche schizzo di colore ad olio sugli zigomi, e i capelli castani appiccicati sulla fronte un po' sudata.
Con le dita sfioro leggermente la superficie, ancora fresca di colore, e una scarica di brividi mi percorre la schiena.
"Ho degli occhi così tristi...?" commento, ridacchiando debolmente; eppure mi sembrava di aver sorriso per tutto il tempo, mentre mi ritraeva...
Il ragazzo mi guarda in silenzio, in un'espressione impassibile; ho l'impressione che, nell'esatto momento in cui ha posato il pennello a terra, i suoi occhi si siano velocemente svuotati di ogni emozione, positiva o negativa che fosse.

Caccio una mano nella tasca del mio giubbotto e afferro il portafoglio; ma mi fermo subito, sentendo le sue dita affusolate stringersi attorno al mio polso, e bloccarne con sorpendente facilità i movimenti.
Sposto velocemente lo sguardo su di lui: i suoi occhi scuri, incatenati ai miei, si sono fatti improvvisamente torbidi; scuote la testa energicamente, aggrottando le sopracciglia ben definite.
"Non voglio niente da te" dice, con tono piatto e freddo; tremo debolmente alle sue parole, che mi prendono veramente alla sprovvista.
"M-ma io-" balbetto incerto, ma le mie parole quasi sussurrate vengono totalmente investite dalle sue, gridate con tanta passione da scuotere ogni centimentro della mia figura.

"L'arte è libera".

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