V. Questions

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Manuel

Mi svegliai sul mio solito letto, fatto di nulla, adagiato per terra fra la polvere che necessitava di essere spazzata via.

Ma io ero bravo a nasconderla sotto al tappeto, metaforicamente riferendomi a tutti i segreti della mia vita.

Sarei dovuto essere a scuola, ma come ogni mattinata successiva a quella situazione non ero in grado di svegliarmi ad orario.
Chissà se mai nessuno ci avrebbe potuto fare caso che tutte le mie assenze avvenivano il giorno dopo una fase di luna piena.

Certo che no.
Ovviamente.

Chi cavolo poteva notare un dettaglio del genere, era un'informazione che suggestionava soltanto me stesso, perché ero a conoscenza della mia condizione.

Della mia triste esistenza.

Che però sembrava non riuscire a tenermi lontano da strane sorprese, perché mi ritrovai a dovermi alzare, ancora svestito e con indosso soltanto un paio di pantaloncini Adidas neri e molto datati, per andare a vedere chi ci fosse dietro la porta di casa e perché bussasse con così tanta foga.

Mi trascinai a piedi scalzi, scalciai le scarpe che incrociai lungo il tragitto e girai la chiave nella toppa, poi abbassai la maniglia in ottone e aprii la porta di legno, la cui laccatura stava cadendo a pezzi.

Ero certo di ritrovarmi di fronte al postino e invece, con le mani nelle tasche di una giacca impellicciata di un verde scuro e un taschino in beige, ci trovai Simone.

Mi puntò gli occhi sull'addome, facendomi sentire scoperto. Ridisegnò i miei tatuaggi con lo sguardo e poi tornò a concentrarsi sul mio viso, quando parlai.

«Come diavolo fai a sapere dove abito?» congiunsi le mani e le mossi avanti e indietro in senso di sconcerto.

«T'ho seguito qualche ora fa, dopo stanotte» rispose, abbassando lo sguardo e aprendosi un varco per entrare in casa, senza chiedere neanche il permesso.
Lasciò cadere lo zaino per terra, con un tonfo rumoroso, e attraverso un fascio di luce che filtrava da una finestra potei notare i granelli di polvere sollevarsi nell'aria.

«È un vizio questo di seguire la gente o...?»
«Prima, quando c'era Jacopo, lo stavi incitando a dirmi qualcosa» iniziò, ignorando la mia domanda «tu sai. Ed io vorrei sapere, ho bisogno di sapere. Mio fratello non è più lo stesso.»

Sbuffai e, con la mano destra, spinsi la porta ancora aperta per lasciarla richiudere velocemente dietro di me.

Mi passai le dita attorno alle labbra, mi soffermai sulla barba che cresceva sul mento, grattandola distrattamente per cercare un modo per uscirmene da quella situazione scomoda.

«Dovresti parlarne con lui, io non posso dirti niente» provai a divincolarmi.
«Certo che puoi, hai cercato di spingerlo a parlarmi, quindi non è poi tanto un segreto, no?» allargò le braccia, sfilò una sedia incastrata sotto al piccolo tavolino a due posti e si accomodò al contrario, posando i gomiti sulla spalliera e il mento sulle braccia così intrecciate.

«Ci sarà un motivo se ho spinto lui a parlarti, che dici? È lui che deve rivelarti una cosa del genere, non è una cosa che mi riguarda.»
«Eppure mi sembra di capire che ci stiate dentro insieme.»
«Non esattamente.»
«Ma ci sono andato vicino.»
«Ci sei andato vicino, si.»

Mi passai una mano fra i capelli, poi mi avvicinai al frigorifero bianco, dai bordi un po' sgrattati, ed aprii l'anta per cercare qualcosa da offrire.
Non mi stupii di non trovarci nulla. D'altronde, non mi capitava mai di avere ospiti.

«Non ce l'hai una maglia da indossare?» la sua domanda giunse come una richiesta quasi sofferente e, involontariamente, mi strappò un sorriso mentre ancora ero affacciato sui ripiani deserti dell'elettrodomestico.

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