Il fatto che il relatore gli avesse -di nuovo- bocciato la tesi su cui aveva lavorato duramente per un mese non avrebbe dovuto sorprenderlo più di tanto. Era già successo e probabilmente sarebbe successo ancora, ma il fatto che lui stesso continuasse a stupirsene lo irritava moltissimo. Amava ciò che studiava, come amava gli argomenti che aveva proposto in quei due mesi al relatore, ma a quanto pare non erano abbastanza brillanti per coronare una carriera tanto esemplare come la sua, signor Balestra. Che Simone avrebbe anche voluto dirgli che non gliene fregava proprio nulla delle brillanti idee che il relatore pensava dovesse estrarre dal cilindro: lui voleva solo laurearsi e iniziare a lavorare, come tutti.
Era iniziata proprio male, quella giornata quindi, e male stava continuando, quando addirittura si ritrovò a rovesciarsi il cappuccino d'asporto addosso e le porte della metro si chiusero sulla sua tracolla, strappando inevitabilmente tutti i preziosissimi fogli d'appunti in essa contenuti.
Una giornataccia, e Simone non era di certo famoso per essere uno specialista nello gestire la pressione. L'unico modo per allentarla che conoscesse, era a venticinque minuti a piedi dalla terza fermata della metro e, dopo un acceso dibattito con se stesso, si districò dall'ammasso di corpi stretti gli uni agli altri e saltò fuori da quel treno maleodorante che era il suo incubo quotidiano da tre anni a quella parte.
Il suo unico metodo per rifuggire la pressione era a soli venticinque minuti da lì, venticinque minuti che potevano essere accorciati a sette, con l'ausilio della scomodissima linea 12, con i suoi pullman mezzi scassati e i freni stridenti.
Si strinse la tracolla tra le mani, gli occhi che saettavano sui pezzetti di carta sparsi che fuoriuscivano dai bordi di ecopelle marrone, come a monito di tutto il lavoro ormai da buttare o, quantomeno, da ristampare, se l'impatto aveva risparmiato la preziosa chiavetta USB nella tasca interna. Sbuffò e si spinse la tracolla sul lato, che meno ci pensava e meglio era.
In quell'istante, il pullman giallo e nero gli si palesò davanti, la scritta al neon con il numero 12 sfarfallante e le persone stipate al suo interno come sardine.
Sbuffò di nuovo e si infilò tra il corpo morbido di una signora sulla quarantina -che si stringeva al petto la busta della spesa e non si reggeva ai supporti, rimbalzando qua e là sugli altri passeggeri- e il corpo ossuto di un ragazzo giovane, con lo sguardo vuoto e due occhiaie profondissime.
Simone strinse di nuovo la tracolla e aspettò di dover scendere, esattamente quattro fermate dopo.
La rabbia per quel fato avverso, montava ad ogni spintone della signora con la spesa e ad ogni starnuto del ragazzo ossuto dietro di lui, che puntualmente lo prendeva sulla felpa già macchiata dal cappuccino di prima.
Si sentiva un relitto, le ossa scricchiolanti sotto il peso di una pressione che per metà si infliggeva da solo e la mente annebbiata a pregustare il momento in cui quella rabbia si sarebbe dissipata, ormai a due fermate di distanza.
Attese con apparente pazienza, tradito dalle dita che picchiettavano sul palo di metallo con la vernice sbeccata in più punti a mostrare la ruggine sottostante.Quando finalmente scese, si ritrovò di fronte quel palazzo che ormai era una seconda casa, porto sicuro nei suoi momenti di rabbia cieca o in quelli di sconforto più cupo.
Si avvicinò svelto al citofono e pigiò il pulsante accanto al nome scritto su un pezzo di scotch carta, col pennarello indelebile rosso, che non aveva ancora avuto il tempo di sistemarlo bene, anche se ormai Manuel viveva lì già da due anni.
Passò qualche secondo, prima che la voce metallica -e comunque incredibilmente calma- chiedesse, placido: "Sì?""Sono io", che c'era davvero bisogno di specificare il suo nome?
Passò qualche attimo di silenzio, tanto che Simone pensò di doversi davvero annunciare per nome, ma poi dal citofono gracchiante provenì un sospiro lieve seguito da un "Sali" flebile.
Il pesante portone di vetro e metallo nero fece uno scatto e Simone lo conosceva così bene da sapere di doverlo tirare prima verso di sè e poi spingere, per farlo aprire.
Perché Simone c'era stato centinaia di volte davanti a quel portone.
Sembrava familiare, il percorso che dall'androne lo portò al secondo piano, alla porta di legno sulla destra del pianerottolo, davanti alla quale c'era un piccolo ficus rinsecchito, che Manuel proprio non voleva ricordare di annaffiare periodicamente.
La porta era socchiusa, appoggiata e Simone la spinse con naturalezza, per poi entrare e sfilarsi le Vans, affiancandole subito ad un paio di Converse già al loro posto.
Poggiò la tracolla maciullata sul mobile di legno chiaro accanto alla porta ed esalò un respiro già più rilassato.
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One More Night
FanfictionSimone è davvero stressato e c'è solo una cosa -una persona- che possa alleviare questa pressione.