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"Però tu fammi una promessa", Dante nel delirio da medicinali era sempre parecchio loquace, "che quando non ci sarò più, andrai a trovare quel bambino, Manuel, che voglio sapere se è diventato un uomo, se ha vissuto la vita che tuo fratello non ha visto, dopotutto, aveva un pezzo di lui"
E Simone annuiva, che cos'altro poteva fare. Annuiva e gli stringeva la mano, forte, non la lasciava andare.
"Lo trovo, papà, lo trovo", glielo prometteva ogni volta, perché suo padre glielo faceva promettere ogni volta. E se una promessa è contratto, lui a questo Manuel doveva essere ormai talmente vincolato da avere un filo che li univa a doppio giro, probabilmente. Quella promessa si faceva scudo nelle notti in cui suo padre soffriva di più, si faceva miele quando era lui stesso a raccontargli quella bella fiaba. E Simone avrebbe voluto realizzarla, per lui, davvero, ma tutto ciò che sapeva era che quel bambino a quattro anni aveva battuto la testa, era finito in ospedale e suo padre gli aveva regalato un dinosauro giocattolo, quello che era stato il preferito di suo fratello Jacopo. E che si chiamasse Manuel. Non aveva altre informazioni e, prosciugato nelle energie a ventidue anni come era, non aveva la forza per applicarsi in quella ricerca folle.
Tuttavia, Manuel riuscì a trovarlo alla fine.
Che era già un anno che non stringeva più la mano di suo padre alla sera, un anno che lui gli aveva fatto promettere la stessa cosa come ogni sera, ma nessuno dei due sapeva che sarebbe stata l'ultima volta.
Erano rimasti in due, lui e la nonna e stavano bene, tutto sommato. Sua madre era diventata spettro di un bene che c'era stato ed ora si consumava alla fiamma debole di qualche augurio natalizio snocciolato sulla tastiera di uno smartphone con lo schermo crepato.
Quella sera a ballare ci era andato per distrarsi, che glielo avevano detto anche Giulio e Matteo, che ne aveva bisogno. Da quando suo padre non c'era più, le spalle gli erano diventate più larghe per reggere un peso che credeva di dover portare da solo, e che si trascinava continuamente senza accorgersene; come Sisifo, anche lui continuava a spingersi alla cima ogni giorno e, ogni giorno, lui e il suo peso scivolavano inesorabilmente verso il basso. Se ne accorgeva solo quando, all'improvviso, di notte annaspava alla ricerca d'ossigeno, come se qualcuno gli stesse chiudendo la trachea e lui non cercasse altro che un soffio d'aria.
Quella sera, la musica alta, le luci intermittenti e l'alcol sarebbero stati la sua aria e gli andava bene così.
Erano nel locale da circa un'ora e mezza, lui aveva già tracannato tre Moscow Mule, più che sufficienti al suo fisico ormai esile per sentirne gli effetti.
La vista traballante gli faceva vedere molte più persone di quante ce ne fossero, molte più anime a mischiarsi, ad inglobarlo, a renderlo anonimo. Ci stava così bene, nell'anonimato.
Non era più Simone, quello a cui son morti padre e fratello, era solo Simone, il ragazzo sbronzo che dondola fuori tempo, come altre trecento persone in quella sala troppo grande.
La camicia di lino gli si appiccicava alla pelle e aveva perso sia Giulio che Matteo, ma stava bene. Sentiva la testa leggera, per la prima volta da così tanto tempo. Per la prima volta, la mente era libera da tutti i pensieri, libera dai papaveri rossi che aveva posato sulla tomba di suo padre la settimana scorsa. Libera dai girasoli che invece aveva posato sulla tomba di Jacopo, perché erano i suoi preferiti. Libera dal bellissimo e tragico contrasto che rosso e giallo facevano uno accanto all'altro.
Era libero, Simone.
Lo era per la prima volta.
E fu in quel delirio di libertà, che lo vide.
Quei ricci castani gli ricordavano il moto perpetuo delle onde del mare e quando i loro sguardi si incrociarono, Simone sentì il cuore pompare sangue ad una velocità non umana, quelle iridi scure furono come un'esplosione detonata poco lontano dalla sua rinnovata libertà.
Pensò che se era libero, lo era di far qualsiasi cosa, e quindi si avvicinò, tentando di mantenere un'andatura sicura.
Il riccio gli si avvicinò e gli sorrise di un sorriso che Simone reputò sibillino, quasi nascondere segreti che lui non avrebbe mai saputo leggere.
Il ragazzo lo guardò di sbieco per un attimo, gli sorrise e poi iniziò a ballare vicino a lui, che altro non poteva fare se non ammirarlo con le labbra dischiuse.
Ammirò la sicurezza con cui muoveva i fianchi sinuosi, ammirò il modo dolce in cui gli prese una mano e se la portò alla spalla. Ammirò il fatto che stessero andando completamente fuori tempo nel loro dondolare, ma quel ragazzo sembrasse perfetto anche in quello.
Simone si sentiva rapito da quel respiro, seppur non ne avesse ancora sentito la voce.
Continuavano a guardarsi negli occhi e Simone pensò che si sarebbe perso in quella libertà in cui aveva inglobato anche l'altro.
"Mi fa schifo questa musica", gli urlò all'orecchio, perché tanto era libero, no? Poteva dirgli ciò che voleva.
"Anche a me fa schifo", rise lui. E la sua risata fu come un trillo, come uno scampanellio che ti riporta alla veglia dopo un sonno maledetto.
"E andiamo fuori", gli disse.
"E andiamo fuori", concordò lui.
Simone ammirò la fluidità con cui intrecciò le loro dita in un incastro perfetto e ammirò il modo in cui, a quella stretta, non sentì la sua libertà venir meno.

All The Promises We MadeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora