Prologo

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Guardavo le gocce di pioggia fare a gara sul vetro della finestra mentre raccattavo alla rinfusa i vestiti da mettere nella valigia. Dalla cucina  sentivo provenire varie voci, quella che più spiccava era quella di zia Maria, la quale era arrivata da Milano appena saputo del decesso di mamma. Il tono della sua parlata scavalcava quello dei nonni che cercavano di dileguarsi con fare seccato: "Ma insomma Adele è vostra nipote... La dovrete pur guardare in faccia!". A questa esclamazione io ero così stupida da aspettare ancora una qualunque risposta e quando questa non arrivava mi sentivo delusa dal fatto che nonostante fossero passati quasi due decenni loro mi trattassero nello stesso modo in cui mi trattarono il giorno della mia nascita: come il nulla. Misi nervosamente apposto alcune grinze del lenzuolo sul letto, speranzosa del fatto che sarebbe stata l'ultima sera in quell'appartamento. Attraversando lentamente il corridoio, origliando la conversazione nell'altra stanza, in fondo, vicino alla porta mi pareva di vedere sempre lei, mia madre, mentre si tirava su il bavero del cappotto prima di uscire e andare in fabbrica a lavorare. "Sono pronta, andiamo zia!" esordii mentre la discussione si arrestò di colpo per lasciare spazio ad un silenzio imbarazzante. Guardai i presenti negli occhi intensamente, soprattutto i nonni, cercando di intravedere nel loro sguardo gelido almeno un briciolo di bontà, quando in realtà a loro di me non importava niente, ero solo un peso e con mamma, una macchia sul buon nome della loro nobile famiglia. Era stato stabilito che fino al raggiungimento della maggiore età,  quindi per poco meno di un anno, io sarei stata ospitata in un collegio gestito dalle suore, vicino a Piacenza. Ero molto agitata di lasciare l'appartamento, da una parte in quella casa i fantasmi del passato mi tormentavano, dall'altra, però, mi davano quel senso di sicurezza e calore che solo i ricordi più felici sanno dare. "Se hai bisogno di qualunque cosa, se hai qualunque tipo di problema, dillo a suor Maria, lei è brava e quando vuoi ci possiamo sentire per telefono!", l'esile corpo da ballerina di mia zia mi stringeva a sé con la forza di una bambina, si sentiva in colpa per lasciarmi in quel posto mentre lei era in tournée con la compagnia di ballo. Ne avevamo parlato ed io stessa le avevo dato il lascia passare per partire rassicurandola del fatto che me la sarei cavata benissimo da sola e che al compimento del maggiore anno di età l'avrei raggiunta, ovunque lei fosse. Le ero rimasta solo io come parente e viceversa, perciò tra noi, soprattutto negli ultimi mesi, da quando mamma era malata, si era sviluppato un legame più forte al fine di prepararci a vicenda un porto sicuro a seguito del lutto. 

Dopo essermi liberata da quella presa annuì lasciandole un mite sorriso tentando di farle mettere l'anima in pace, poi mi diressi verso i nonni e li abbracciai, la nonna si liberò con qualche falsa frase di circostanza mentre il nonno mostrò riluttanza persino a sfiorarmi e rimase rigido come un pezzo di legno. Mi diressi verso l'uscita senza voltarmi indietro, tanto di quell'appartamento avevo prodigiosa memoria, uscimmo tutti e zia chiuse la porta con qualche giro di chiave. Per la prima parte del viaggio non proferii parola perché nella mia testa ero intenta a immaginarmi come sarebbe stato il posto in cui avrei dovuto trascorrere i prossimi mesi, "Non te la prendere per come si sono comportati quei vecchiacci, sono tutti fatti così quelli della famigla Manzoli, prodotti in serie proprio ! Guarda il lato positivo, almeno non li rivedrai più..." la voce squillante e sgraziata di zia mi riportò alla realtà, "Almeno mi hanno dato una buonuscita!" risposi passandomi tra le mani un filo di perle; "E quello da dove salta fuori?" mi chiese sgranando gli occhi, "Dovrebbero fare questi moschettoni più resistenti altrimenti le belle signore rischiano di perdere le collane per strada!", mi trattenni dallo scoppiare in una rumorosa risata aspettando la reazione di zia che non tardò ad arrivare: "Gliel'hai sfilata quando l'hai abbracciata?", non riuscii più a contenermi ed iniziai a sghignazzare, "Sei proprio un diavolo! Tesoro sai che questo si chiama rubare? Dovremmo riportarla indietro!" aggiunse mentre si destreggiava tra il guardare me e la strada, dopo qualche momento di silenzio concluse: "Ma se il moschettone era rotto... Che resti tra di noi e che non si ripeta mai più hai capito ragazza? Chissà che dalle suore impari un po' di maniere!". Complici del crimine ci guardammo con un'espressione compiaciuta come se in quel volgare dispetto ci fossimo tolte lo sfizio di vendicarci contro quei due che in vent'anni non avevano speso nemmeno una buona parola per mamma e per noi. "Ti troverai bene lì, magari farai un po' fatica ad ambientarti ma sicuramente farai amicizia pure con i tuoi coetanei del paese basta che...", mi ripeteva le solite raccomandazioni "Basta che tenga a bada il mio caratteraccio e che stia lontana dai guai!" la incalzai. Mi lanciò uno sguardo che un po' mi rassicurò  "Per Natale vengo a trovarti, promesso!", poi rimise gli occhi sulla strada. Poco più di un'ora e sarei arrivata nel piccolo comune del piacentino che sarebbe diventato la mia nuova casa: Bobbio.

I demoni di BobbioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora