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Ero steso in modo innaturale sotto il letto, afferrando finalmente ciò che cercavo da ore per riportarlo alla luce pieno di polvere e spaventato, la prima volta in cui mi resi davvero conto di che abitudine terribile fosse la mia.

Forse la consapevolezza appena raggiunta avrebbe dovuto spingermi a migliorare, correggere un atteggiamento chiaramente rischioso, che però io continuavo a ripetere senza preoccuparmi delle conseguenze.

Col senno di poi, volendo a tutti i costi trovare un'origine valida a quella negligenza, posso dire che quantomeno non era dipesa da me.

Un bimbo, questo ero quando, carico di aspettative non ancora distrutte, commisi un gesto così naturale da non ritenerlo neanche rilevante.

Stretto tra le manine impacciate, si dimenava emozionatissimo il piccolo cuore che volli donare al mio papà, con la certezza sconfinante in fiducia cieca che se ne sarebbe preso cura.

Fu una batosta piuttosto grave scoprire, invece, che da tutta la premura sperata non avrei ricavato altro che una carezza leggera sui bordi palpitanti seguita dalla restituzione veloce, quasi che anche solo tenerlo per sé più di un secondo avrebbe potuto cementare un legame che lui rifiutava di creare.

"Non so che farmene" mi confidò in un tono che al dispiacere sostituiva fastidio "c'ho già il mio a cui pensà Manuel... e pure quello de tu madre che non se decide mai a riprenderselo" chiosò indicandomi un organo spaventoso nella sua forma rovinata, a tratti irriconoscibile, e pieno di lividi scuri.

Imparai a 6 anni che del mio cuoricino già malconcio nonostante la giovane età dovevo allora esserne l'unico custode designato.

Inizialmente non mi persi d'animo: l'affetto di mamma in qualche modo riempiva tutte le assenze, compensando al meglio delle sue possibilità gli spazi che sentivo pian piano formarsi in petto.

Però alla lunga, con la scuola in corso e gli altri bambini fieri e spietati nel mostrare i loro cuori felici e pieni d'amore, il rifiuto subìto si impresse su di me a mo' di una conferma non richiesta del guasto che caratterizzava il mio.

Se nemmeno papà che mi aveva messo al mondo lo voleva - pensavo riponendolo in una scatolina su cui avevo praticato dei piccoli forellini per l'aria e ignorando la sua espressione turbata - come potevo sperare che qualcun altro riuscisse ad accettarlo?

Cominciai col tempo a provare un'odio smisurato per quello stupido muscolo che non smetteva nemmeno un attimo di battere e disturbarmi in sonno e in veglia.

Arrivai all'adolescenza pienamente conscio del vuoto insito al centro dell'addome e, anziché riempirlo, presi a costruire la vita tutt'attorno, rovesciando in avventure prive di qualsiasi riscontro emotivo i vari traumi irrisolti.
Non ci provavo neanche a cambiare tale condizione, piuttosto preferivo convincermi che più di certi insignificanti rapporti non avrei mai avuto e meritato.

Conoscevo la rabbia, l'impazienza e talvolta pure lo sconforto come sentimenti preponderanti, ma nulla che potesse collegarsi al battito di un cuore e al consequenziale desiderio o predisposizione al bene più puro.

Avevo preso un mio limite evidente - il nulla che mi attraversava esponendomi a sguardi inorriditi o pietosi - e ne avevo fatto un punto di forza, una sfacciataggine che permetteva di apparire sempre distaccato, convinto della posizione inarrivabile che occupavo e della mancanza di qualsiasi vulnerabilità a potermi colpire.

Tale superbia palese non venne meno neanche quel sabato dell'ultimo anno di liceo mentre, rinchiuso fra le mura ammuffite della vecchia palestra, mi ritrovai faccia a faccia con un compagno di classe dagli occhi troppo grandi per il suo volto minuto e le dita tanto delicate da rendere dei pugni fermi al pari di carezze amorevoli.

Il cuore (window in your heart).Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora