Fiori D'Arancio

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Non sono ciò che comunemente viene definito come anima della festa, questo penso sia chiaro un po' a tutti. Persino a chi non mi conosce.

Non amo mischiarmi all'interno di una folla anonima con dei volti altrettanto ignoti, sebbene per gran parte della mia vita – e in realtà anche tutt'ora - io abbia desiderato essere un senza nome, solo per sfuggire alle aspettative degli altri sempre troppo alte nei miei confronti.

Ché io a deluderli ci mettevo meno di zero, e i loro falsi sorrisi volti a farmi credere il contrario mi ferivano più del mio stesso fallimento.

E ad essermi sconosciuto è anche il motivo per cui, alle due e quaranta della mattina, io mi ritrovi in un punto poco distante dalla pista da ballo – se quattro linee disegnate sul pavimento così si possono definire – a fingere di bere un Long Island con più ghiaccio che alcol al suo interno.

Credo di aver accettato l'ennesimo invito da parte dei miei colleghi universitari soltanto per non risultare sempre quello strano del gruppo. E anche se la loro è solo una bonaria presa in giro, io non posso non rabbuiarmi ogniqualvolta la mia persona venga associata a quella parola, coscio del fatto che il modo in cui la gente è solita chiamarmi corrisponda alla amara verità .

Ché io a relazionarmi con i miei pari non sono mai stato in grado e di certo non imparerò adesso – a quasi ventitré anni.

Il sudore di tutti quei corpi agitati si mischia all'odore di coca cola proveniente dal mio bicchiere, provocandomi un senso di nausea all'altezza dello stomaco.

Un conato mi costringe a strizzare le palpebre con forza, come se mettendo da parte la vista, anche i restanti sensi venissero meno.

Ovviamente, non è quel che accade.

Decido allora di andare a prendere un po' d'aria fresca, per quanto fresca possa considerarsi l'aria che si respira in pieno luglio tra le costruzioni della capitale, elevate a tal punto da rendere quasi impossibile la vista dei puntini biancastri che costellano il cielo.

Poggio entrambi i gomiti su una ringhiera arrugginita: numerose macchie di ferro prima riempite dal nero di una vernice.

Estraggo dalla tasca posteriore dei pantaloni in gesso un pacchetto per metà concluso di Winston blu, sebbene siano mesi che provi a togliermi il pessimo vizio di fumare, e mesi che mi scopro a fare la fila nel tabacchino a pochi metri distante dalla mia abitazione, ché è l'unico ad essere aperto ventiquattro ore su ventiquattro e per questo sempre gremito di persone.

Con limitata gioia noto che Roma questa notte sta regalando ai propri abitanti una brezza quasi piacevole, la quale rende la mia camicia meno bagnata ma più rigida al tatto.

Di contro però, mi risulta più difficile del solito permettere alla punta della mia sigaretta di illuminarsi.

La debole fiammella fa fatica, sfidata dal vento, a rimanere in vita per il tempo di cui io e la mia amica necessitiamo.

Una mano a proteggerla dalle intemperie le consente di svolgere il proprio incarico ed io, quasi ringraziandola, mi trovo a rimettere in tasca il fautore di tale scintilla per godere di ciò che la nicotina ha da offrirmi.

Un cancro ai polmoni, qualcuno direbbe.

Io però non me ne curo.
Non per stasera almeno.

Ma l'ho promesso a me stesso, che smetterò di essere un suo amico prima o poi.

Mi domando come impiegherò il mio tempo, quando mi sarò tolto il vizio del fumo.

Ché tenere in bilico quel cilindro di carta è un'azione dettata più dal mio essere estremamente abitudinario che dalla mia reale necessità di ostruirmi le vie respiratorie con del catrame.

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