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Erano le sette e zero due del mattino, quando Simone Balestra sollevò la saracinesca della sua libreria. Si strinse nel giaccone grigio mentre cercava insistentemente di infilare le piccole chiavi nella toppa della porta a vetri, attraverso la quale poteva vedere già due dei cinque gatti all'interno ridestarsi dal torpore del riposo.
Sorrise ai due felini che si premurarono di premere i piccoli nasi rosei sul vetro per salutarlo, mentre dietro di lui l'alba si schiariva sempre di più e quel gelo tipico di febbraio si faceva sempre più ghiacciato, invece di arrendersi e sciogliersi a favore della primavera.
Dentro, il torpore del locale lo accolse come un abbraccio familiare e quando accese le luci dal quadro generale dietro alla porta a vetri, a una a una, le piccole zone della libreria cominciarono ad illuminarsi come un albero di Natale.
Simone si avviò all'angolo dove teneva le ciotole dei gatti e subito, i cinque felini lo seguirono, consapevoli che quella fosse l'ora designata per il primo pasto della giornata.
Era metodico, Simone.
Ogni giorno, scendeva di casa alle sette in punto per aprire la sua libreria, la cui vetrata riportava la scritta Sleepy Cat Books a caratteri neri in grassetto, e come prima cosa, dava da mangiare ai gatti.
Viveva da due anni nel piccolo trilocale sopra alla libreria, che era riuscito ad affittare solo tre anni prima, realizzando così l'aspirazione di una vita.
Curava quel locale nel minimo dettaglio, i vasi sospesi con l'edera venivano annaffiati periodicamente, gli scaffali spolverati ogni giorno, le poltroncine rifoderate ogniqualvolta uno dei gatti provvedeva a rovinarne il tessuto. Persino le lucine di Natale che decoravano alcuni degli scaffali, venivano controllate ogni settimana, per assicurarsi che nemmeno una lampadina si fosse fulminata.
Lo Sleepy Cat Books era la libreria che Simone aveva sempre voluto. Era accogliente e calda, i suoi clienti potevano fermarsi per tutto il tempo che volevano a leggere, circondati da luci soffuse e gatti che facevano le fusa. Aveva persino messo a disposizione delle tisane e un bollitore con tutti i suoi infusi preferiti a cui ogni settimana aggiungeva gusti ricercati per accontentare tutti e si premurava di rifornire sempre la scorta di biscotti al burro, che erano sempre i primi a finire, nel barattolo di vetro vicino alle tisane.
I mici erano diventati cinque solo di recente, quando Simone aveva trovato Ziggy in un cassonetto dell'immondizia, piccolissimo e infreddolito.
Aveva un taglio -che dopo un mese era diventato quasi cicatrice- che attraversava l'occhio destro come la saetta di Ziggy Stardust, e quindi a Simone era sembrato un nome appropriato. 
Certo, la maggior parte delle persone non coglieva il riferimento e ne storpiava il nome, ma tant'è.

Ziggy, Ariel, Ade, Sofia e Bucky lo seguirono in fila attraverso gli alti scaffali di legno fino ad arrivare all'angolino dove cinque ciotoline colorate erano state svuotate di ogni singolo croccantino.
Il ragazzo ridacchiò, mentre Ade gli strofinava la testa sui jeans, già riconoscente per il cibo in arrivo e Ziggy saltellava in giro come un forsennato, eccitato per il nuovo giorno che lo aspettava. Erano tutti calmi e placidi, in perfetta armonia con il luogo che abitavano, ma Ziggy sembrava non abituarsi, forse trascinato da Ariel, che era la seconda più piccola.
Riempì le ciotole ed accese i riscaldamenti, sfilandosi finalmente il giaccone, che appese all'appendiabiti all'ingresso.
Sospirò soddisfatto: un'altra giornata poteva iniziare.

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Manuel uscì dall'aeroporto rimpiangendo profondamente il clima californiano a cui si era abituato negli ultimi mesi. Si strinse nella felpa troppo leggera per il clima rigido di febbraio e si maledì per non aver ascoltato Anita, sua madre, che gli aveva detto più volte di portarsi un giubbotto, ma lui niente, doveva far per forza di testa sua. Accese il cellulare precedentemente spento per volare e subito venne inondato dai messaggi WhatsApp del gruppo formato da quegli scalmanati che si ritrovava come amici.
Gli dicevano di non abituarsi troppo, che poi in Italia ci sarebbero tornati tutti insieme e che comunque doveva tenere a mente l'obiettivo: terminare l'album in uscita e finire il tour che avevano iniziato.
Gli Attic Enemies si erano formati sette anni prima e dopo un paio d'anni di gavetta avevano ricevuto l'ingaggio della vita: chi l'avrebbe mai detto che suonando in un locale underground poco fuori Roma, un produttore li avrebbe notati e, addirittura, scritturati?
Manuel non c'aveva pensato un attimo quando gli avevano proposto di partire per Los Angeles.
Bugia.
C'aveva pensato eccome, ma era inutile soffermarsi su quel pensiero, perché alla fine quell'aereo l'aveva preso e a Los Angeles ci era andato, per buona pace di tutto quello che si era lasciato dietro.
Roma, in quegli anni, non era cambiata nemmeno un po' e per quanto lui avesse provato a dimenticarla, ricordava ancora tutto. Ogni strada, ogni luce, lo colpirono allo stomaco come un pugno, all'uscita dell'aeroporto.
Che poteva fingere quanto voleva, ma Roma, in lui, non sarebbe mai sbiadita.

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