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Dopo soli diciotto minuti dall'inizio, erano già sotto di un gol.

Ironia della sorte, a timbrare il cartellino era stato proprio uno degli ex: Benatia, dopo una serie di rimpalli e parate di Alisson, era riuscito a insaccare la palla.

Diana continuava a urlare e a cantare, si infuriava quando qualcuno sbagliava il passaggio o la Juve riprendeva possesso palla. Sentiva un buco allo stomaco e una strana sensazione le si era insidiata nel petto: tutti, che lo volessero o meno, sapevano quanto la squadra avversaria fosse forte e, per quanto ci sperassero, era troppo complicato ribaltare le sorti di quella partita.

Verso la fine del secondo tempo - dopo una clamorosa chance divorata da Schick - c'era stata qualche azione offensiva della Roma, ma Szczęsny era riuscito a bloccarle.

L'arbitro fischiò la fine del match e Diana si coprì gli occhi con le mani appena sentì l'inno juventino, respirando profondamente per cercare di calmarsi.

Per quanto non sopportasse avere quelle crisi quando la Roma perdeva, non riusciva a controllarsi: tutto intorno a lei parve offuscarsi e le lacrime iniziarono a scenderle silenziose sulle guance; percepì solo due braccia stringerla forte e alcune carezze delicate tra i capelli.

«Non fa nulla, va bene? Non è successo niente. Non abbiamo perso la Champions né lo scudetto, ce la possiamo fare.» la rincuorò Simo, ma era palese dal tono di voce che nemmeno lui riuscisse a credere troppo a quelle parole.

Diana si strinse al suo amico, cercando conforto.

Non le importava dei titoli né di essere la prima in classifica. Era certamente importante anche quello, ma le dispiaceva soprattutto vedere la sua squadra afflitta; non era nemmeno stato facile, per lei, poter essere presente a quella trasferta: era riuscita a convincere i suoi genitori solo grazie agli ottimi voti che aveva conseguito in quei mesi scolastici, e aveva dovuto rinunciare a molte frivolezze.

Non pretendeva la vittoria, ma un minimo di sforzo e di passione in più.

Come se non bastasse ciò, per giunta, era anche il giorno prima della Vigilia di Natale.

Si staccò leggermente da Simo, sospirando, e Flavio li raggiunse, lanciandole un sorriso malinconico. Si incamminarono a testa bassa fuori dallo stadio, uno a fianco all'altro, a sorreggersi. Gli schiamazzi e i cori di vittoria degli juventini erano ancora udibili in strada, e la biondina si rattristò ulteriormente.

«Guardiamo il lato positivo, Torino non è tanto male!» Flavio ruppe quel silenzio denso di tristezza.

Simo gli diede ragione e Diana annuì debolmente, stringendosi nel suo giubbotto.

L'unica certezza era che in quella città la temperatura fosse molto più bassa rispetto a Roma, e lei adorava quel freddo pungente, talmente penetrante da sentirlo sin dentro le ossa.

«Io credo che raggiungerò gli altri della curva.» decretò Simo, fermandosi. «Voi che fate? Vi unite?»

«Io sì, tu Diana?»

«Io voglio passeggiare ancora un po', andate pure. Ci vediamo in albergo. Chiamatemi quando tornate, così vi apro.»

Con un po' di riluttanza i due ragazzi la lasciarono andare, pregandola di avvisarli appena fosse arrivata a destinazione e di chiamarli se ne avesse avuto bisogno.

Diana li tranquillizzò e, allontanandosi, decise di inviare un messaggio a suo padre.

A Papà:
Mi dispiace per la partita,
ti giuro che c'ho sperato
e ho cantato sempre...

SOTTO LO STADIO | Paulo DybalaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora