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22 aprile 2018


Paulo credeva che il dolore non passasse mai davvero.
Potevi conviverci, accettarlo, ignorarlo e persino combatterlo, se eri abbastanza scemo da pensare di riuscire a vincerlo.

Per lui era come una cicatrice che da piccolo ti rimedi durante una partita al campetto, come un ricordo di ciò che hai passato e a cui sei sopravvissuto: una porzione di pelle, in rilievo e frastagliata, su cui passi le dita per ricordarti che sei ancora vivo, che non ti hanno ancora buttato giù.

Paulo aveva conosciuto il dolore molte volte, nel corso della sua vita, ma ciò che provava in quel preciso istante non avrebbe saputo descriverlo.
Non era straziante e logorante come quando gli avevano comunicato che suo padre non c'era più, che una malattia complicata se l'era portato via, che l'aveva lasciato ancor prima che potesse insegnargli a vivere davvero, ancor prima che potesse vederlo realizzarsi come calciatore e come uomo.
Non era subdolo e incessante come quello degli infortuni, che si irradiava a sfiancanti ondate e gli mostrava quanto, in realtà, fosse fragile e umano, nonostante creasse magie e a scatenasse lacrime e urla solo con un pallone tra i piedi, nonostante si sentisse un marziano quando lo insaccava in rete.

Quello che percepì fu un nuovo tipo di dolore.
Rinomato e inevitabile, persino scontato. Era la realizzazione di una delle sue paure più grandi, il manifestarsi di essa davanti ai suoi occhi senza un potere che potesse bloccarla, o almeno limitarla.

Quelle foto stampate che suo fratello e procuratore Mariano, il mister Allegri e alcuni dirigenti gli avevano appena sbattuto sotto il naso, durante l'intervallo di Juventus-Napoli, erano la prova concreta di quanto fosse stato stupido e incosciente.

Lui e Diana che si abbracciano nel corridoio dell'Olimpico dopo la partita con la Lazio, che si fissano come due assetati nel deserto.
Lui ubriaco che viene trascinato in macchina da Gonzalo, Diana dietro di loro con l'espressione corrucciata e pensierosa.
Loro che escono per mano dall'appartamento acquistato in centro a Torino, i capelli in disordine e i vestiti più stropicciati di come li avevano indossati quella stessa mattina.
Il sorriso felice di Diana dopo la partita contro il Barcellona, lui con il cappellino della Roma calato sulla testa, mentre la osserva di soppiatto.

Il loro amore sbattuto su pezzi di carta patinati e lucidi come una storia qualsiasi, come se quelli non fossero stati i momenti più belli della sua vita da che ne aveva ricordo, come se non avessero condiviso più di qualche fugace scambio di saliva e di orgasmi.
Come se Diana fosse stata una virgola di troppo, una sbavatura su un quadro immacolato, e non la ragazza di cui era follemente innamorato.

«¿Tienes algo que decir?» [Hai qualcosa da dire?]

Mariano era in piedi davanti a lui, solo una scrivania piena di foto e fogli a dividerli.
Paulo lo fissò per qualche secondo e si rattristò: suo fratello era sempre stato l'adulto, quello che gli copriva le spalle, che gli parava il culo quando si comportava da coglione.
Tredici anni di esperienze e dolori diversi passavano tra loro, ma bastava un cenno, un tono di voce più alto o basso – a seconda della gravità della situazione – per essere nuovamente fratelli.

Si umettò le labbra e scosse la testa, le mani incrociate dietro la schiena e la testa bassa, concentrata sullo spettacolo grottesco che gli stavano offrendo.

«No sé qué coño te dice el cerebro» [Non lo so che cazzo ti dice il cervello] borbottò afflitto Mariano, massaggiandosi le tempie.

«Hai fatto un bel casino» commentò sarcastico Allegri, le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni eleganti. «Ma io te l'ho sempre detto che non sono il tuo cane da guardia, Paulo... A me interessa come giochi per la squadra, perché abbiamo bisogno di te sul campo. Oggi non sei presente a te stesso.»

SOTTO LO STADIO | Paulo DybalaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora