Prologo

182 16 0
                                        

Dicembre 2012

Oops! Questa immagine non segue le nostre linee guida sui contenuti. Per continuare la pubblicazione, provare a rimuoverlo o caricare un altro.



Dicembre 2012

La felicità è il desiderio innato di ogni essere umano, un'aspirazione universale che ci accomuna, indipendentemente da chi siamo o da dove veniamo. Eppure, per quanto la inseguiamo, sembra sempre un concetto sfuggente, un ideale lontano, una meta irraggiungibile che si dilegua come nebbia al primo tocco. È forse solo un'illusione che ci illudiamo di poter possedere?

Io, quella felicità, non l'ho mai conosciuta. Per me, non è altro che un'idea estranea, un sogno etereo che svanisce prima ancora di prender forma. La mia esistenza è stata una ferita aperta, un continuo sanguinare invisibile che nessuno sembra vedere. Tutto ciò che è prezioso, ogni affetto, ogni frammento di ciò che amo è destinato a sgretolarsi, a perdersi nelle profondità dell'inesorabile oblio.

La vita non è altro che una lunga e lenta caduta verso l'inevitabile, una discesa costellata di silenzi e assenze. E in questo viaggio solitario, la felicità è solo un miraggio, un'ombra senza sostanza, inaccessibile come le stelle che scintillano in un cielo troppo distante.

Domenica 10 dicembre
Era un pomeriggio come tanti, o almeno così pensavo. Eppure, qualcosa nell'aria mi faceva capire che non lo sarebbe stato. Mentre ero sdraiata sul letto, cercando di ignorare il caos che sembrava sempre più prossimo, un tonfo improvviso provenne dal piano inferiore. Un rumore sordo che fece tremare le pareti della casa e mi fece gelare il sangue nelle vene.

Poi, le urla. Un grido straziante che penetrò nelle mie orecchie, amplificandosi fino a farmi rabbrividire. Il silenzio che seguì divenne ancora più pesante. Un silenzio che sapevo non presagisse nulla di buono.

Il mio corpo si paralizzò per un momento, ma la mente non riusciva a ignorare ciò che stava accadendo. Avevo paura, sì, ma non una paura qualunque. Era un'ansia che bruciava dentro, così forte da spingermi ad agire, anche se sapevo che quella scelta poteva segnare la mia fine. Dovevo andare a vedere. Dovevo scoprire cosa stava succedendo, nonostante tutto.

Non sono una di quelle persone che si nascondono quando il pericolo bussa alla porta. Forse è una debolezza, o forse è semplicemente il mio modo di sopravvivere, ma ho sempre pensato che affrontare la paura fosse l'unica strada possibile. Non potevo permettermi di restare immobile, a piangere su ciò che mi accadeva intorno.

Sarà una mossa stupida, mi dico. La logica suggerisce che chiunque altro si chiuderebbe nella propria stanza, cercando rifugio, ma io non sono come tutti.

Il cuore mi batteva forte, come se stesse per esplodermi nel petto. Ogni passo lungo la scalinata pesava più del precedente, trascinando con sé un dolore sordo e crescente. Il legno scricchiolava sotto i miei piedi, e ogni suono risuonava nella mia mente, amplificato al punto da farmi sentire come se il mondo stesse crollando intorno a me. Le vene pulsavano, il sangue scorreva frenetico, mentre la tensione mi avvolgeva come una nebbia opprimente. Ma non mi fermai. Non potevo permettermi di restare inerme.

Arrivai davanti alla cucina. La porta era accostata, e un barlume di luce spiccava nell'oscurità della casa. Varcai la soglia e ciò che che vidi mi risucchiò in un abisso di emozioni contrastanti: dolore, paura, indignazione. Ogni fibra del mio corpo mi urlò di scappare, di fuggire da quell'orrore. Ma una parte di me, forse la più debole, restava lì, paralizzata, incapace di muoversi.

Mia madre giaceva sul pavimento, il viso coperto di sangue. Il liquido rosso macchiava le sue guance, colando lentamente sul pavimento. Sopra di lei, con un coltello in mano, c'era il mio patrigno, o meglio, il mostro che si faceva chiamare così. Il suo volto era una maschera di odio, e le sue urla riempivano l'aria: «Ti uccido puttana»

Volevo scappare. Ogni istinto dentro di me gridava di fuggire, ma le mie gambe non rispondevano. Rimasi lì, inchiodata al pavimento, incapace di reagire.

Tutto ciò era una routine malata, un circolo vizioso di violenza e disperazione, in cui non avrei mai potuto abituarmi.
Guardandola, non potevo fare a meno di chiedermi: perché noi donne, a volte, siamo così fragili?

Anche se ormai era chiaro che non si trattasse di fragilità, ma di paura. Una paura che ci paralizzava, che ci soffocava dall'interno, che si nutriva di ogni nostra insicurezza.

E mentre una lacrima scivolava lentamente lungo la guancia, realizzai che non stavo piangendo per lei.

Non per lei, che mi aveva sempre disprezzata, che mi aveva fatto sentire un peso fino a quel momento. Il mio dolore, in realtà, era per qualcosa di più grande.

Piangevo per il riflesso di un sistema malato, un sistema che, come quello che aveva costruito Mark, rendeva inevitabile pensare agli altri come proprietà e non come persone. Viviamo in un mondo dove alcuni si sentono padroni, mentre altri, come me, vengono ridotti a oggetti, a strumenti nelle mani di chi detiene il potere.

E questa condizione non riguarda solo me o lei, ma si riflette su tutti noi. Un mondo che ci spinge a confrontarci, a competere, a sentirci inferiori, come se la nostra utilità risiedesse nel soddisfare le aspettative di chi ci considera minori.

E questo è ciò che mi addolora: non la singola persona, ma un intero sistema che ci fa sentire inutili e deboli, spingendoci sempre più lontano da noi stessi.

Mia madre non ha mai ricoperto quel ruolo per me. Non mi ha mai amata. Non mi ha mai protetta. Sono sempre stata soltanto un errore che non avrebbe mai dovuto esistere.

Ricordo le volte in cui uomini sconosciuti entravano in casa. Le loro mani viscide cercavano di toccarmi, i loro occhi mi seguivano ovunque. E lei? Lei non faceva nulla. Non mi difendeva. Non diceva una parola.

Forse era troppo fatta per accorgersene. O forse, semplicemente, non le importava.

E ora era lì, distesa a terra, impotente, e io non provavo nulla.

Mark si voltò verso di me.

Il suo sguardo mi trafisse, il suo sorriso un ghigno disgustoso. Si avvicinò come un predatore che sapeva già di aver vinto.

Mi afferrò il braccio, stringendolo forte, sentii il dolore irradiarsi fino alla spalla.
«Ella, facciamo un gioco»

Avevo solo sette anni, ma sapevo che cosa intendesse con "gioco". Lo sapevo perché non era la prima volta.

Mark si tolse la cintura con un gesto rapido, quasi meccanico, e tutto accade in un istante. Il dolore fu acuto, insopportabile. Urlai, ma il suono si perse nel vuoto. Lui rise. Rise del mio dolore, della mia paura. Si nutrì della mia impotenza, come se fosse il suo ossigeno.

E io non potevo fare nulla. Non potevo scappare. Non potevo difendermi.

E in quel momento, una voce nella mia testa mi diceva che questo era il mio destino. Che il mio unico scopo era sopportare.

Per le persone come me, che non troveranno mai la felicità, soffrire senza lamentarsi è l'unica lezione che dobbiamo imparare in questa vita.

E così imparai a vivere in un mondo che spesso sembrava non lasciare spazio a sogni o speranze, dove la sopravvivenza era l'unico obiettivo.

Perché in un mondo che ci mette continuamente alla prova, l'unica cosa che possiamo fare è imparare a stare in piedi.


✍🏻Spazio autrice:

Ciao raga, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, mi piacerebbe che lasciaste un commento. 🫶🏻🤍

Ho voluto creare un personaggio che, purtroppo, riflette una realtà difficile.

Ella è una giovane ragazza, che nonostante le cicatrici del passato e le sfide che affronterà non smetterà mai di lottare. È la personificazione di sopravvivenza.

Two opposite soulsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora