Capitolo 2. Paparazzati!

118 1 0
                                    

«La quiete dopo la tempesta. Leopardi l'aveva scritta per voi» disse ironicamente l'insegnante di italiano.
Il secondo buongiorno arrivò un po' più tardi quella mattina.
«Scusate il ritardo, ma avevo un compito nella 4ˆG» affermò il professore, posando sulla cattedra una pila di fogli.
Ehi! Fermi tutti. Avevo sentito bene?
«Ha detto 4ˆG?» domandai sottovoce, in cerca di una conferma.
«Sì, l'ha detto» mi rispose Daniele.
«Questo significa che il Righi ha Matteo come alunno. Non lo sapevo...»
«Sembra di sì...»
«Ma è bellissimo!» esclamai.
Il mio entusiasmo era alle stelle.
«Perché, scusa?»
«Condividiamo già qualcosa: il prof di italiano.»
«Dai, Linda. Smettila...» sembrava infastidito, ma io ormai continuavo a fantasticare.
«E poi, potrei anche sapere i suoi voti, oppure sapere come si comporta in classe...» continuavo, già nel mio mondo dei sogni.
«Giattini e Bati... cosa avete da raccontarvi?»
Le mie fantasie furono bruscamente interrotte dal vocione del professor Righi.
«La lezione sarebbe iniziata! Con il vostro permesso...»
«Sì, professore. Ci scusi» rispose subito Daniele, da studente modello.
Con l'indice poggiato delicatamente sulle sue labbra, mi fece segno di star zitta. Obbedii. Potevo fermare la mia bocca, ma non la mia mente, libera di vagare dove voleva. Mentre il professore cominciò a parlare, introducendo la vita di Petrarca, io, come al solito, non ascoltavo. Non riuscivo ad ascoltare, e anche se avessi voluto, non ci sarei mai riuscita. Una persona mi aveva ormai invaso la mente e il cuore. Poggiai il volto sulla mano, guardando fuori dalla finestra, accanto a me; non osservavo niente di particolare. Ogni tanto il mio sguardo balzava sulle foglie che si staccavano dai pioppi, librandosi leggere per aria, zigzagando a destra e a sinistra come in uno slalom, roteando su se stesse come agili ballerine, la loro ultima danza, prima di cadere inermi sul vialetto di scuola. Era novembre, l'anno scolastico era iniziato da due mesi circa.
All'improvviso, sentii l'impulso di scrivere, di imprimere sulla carta tutto quello che provavo, incancellabile. Presi un foglio dal quaderno e una penna dal mio astuccio blu e cominciai a tradurre in parole tutto quello che mi mi passava per la testa. L'inchiostro scorreva veloce, impetuoso sulla carta.
"Lei... tutte le volte che lo vede, ogni volta che lo sente vicino prova un mucchio di sentimenti che si incrociano, contrastano, sbattono. Troppi sentimenti in uno stesso istante. Lo guarda, desidera stare con lui, ridere insieme, vorrebbe che lui la pensasse, anche solo per un attimo, un secondo proibito. Lei... guarda incantata i suoi occhi, la sua bocca, il suo naso, ed ogni difetto scompare: tutto le sembra perfetto ,tutto ciò che fa parte di lui le sembra bellissimo. La sua voce, la sua risata a volte stupida: lei si scioglie. Guarda ogni cosa di lui. Lo mira a fondo. Non riesce a distogliere lo sguardo. È più forte di lei. Lo osserva, sicura di non essere ricambiata. Un velo di tristezza per questi pensieri le invade la mente: sa che non potrà mai averlo. Appartiene ad un'altra. E non può fare a meno di provare invidia. Sì, invidia per colei che gli è sempre accanto, che gli stringe il braccio intorno al collo, che ogni tanto lo bacia, che ride insieme a lui. E lei... lei invece può solo ammirarlo, desiderarlo, ma mai averlo. E lei lo sa bene. Ma quando lo vede il desiderio la prende, la travolge come un fiume in piena. È dura tenersi tutto dentro; per lei questo desiderio, questa passione pesa più di un macigno e provoca dolore. Non le rimane altro che soffrire per la consapevolezza di un desiderio che non sarebbe mai stato realtà."
«Cosa stai scrivendo?» sentii sussurrare.
Daniele s'intrufolò nelle mie fantasie segrete. Dovevo difenderle. -Niente... sciocchezze, pensieri stupidi.»-
«Hai scritto una pagina intera di sciocchezze?»
Maledizione, perché doveva sempre cercare l'ago nel pagliaio? Non risposi. Non mi andava di fargli leggere i miei pensieri più segreti; quella pagina l'avevo scritta per me.
«Dai, Linda. Non fingere con me. Ci conosciamo da una vita...»
Era vero. Sapeva tutto di me. Sapeva che il giallo era il mio colore preferito standard, ma sapeva anche che andavo a periodi. Sapeva che odiavo i ragni e gli scarafaggi. Conosceva tutte le cicatrici che mi ero fatta da piccola. Ma questo non lo autorizzava ad entrare nella mia testa. Non aveva un pass per entrarci e guardare cosa vi era al suo interno. E non l'avrebbe mai avuto, né lui né nessun altro. I miei sentimenti, le mie sofferenze dovevano restare lì dov'erano, senza essere svelate a nessuno, nemmeno al mio migliore amico.
«Per favore, Daniele, non insistere. Non mi va di parlarne.»
«Oh, ho capito. Ancora quel Matteo. Te lo dovresti togliere dalla testa, lo sai. Sta insieme a Giada dalla prima liceo, come puoi anche solo pensare a lui. Sai che non sarai mai ricambiata.»
Sentii una fitta al cuore, come una freccia che aveva fatto centro nel mio petto. E Daniele era l'arciere. Feci un respiro profondo.
«Lo so bene. Ma che ci posso fare. Ormai è più forte di me. Tutte le volte che lo vedo scatta in me qualcosa che mi fa battere il cuore all'impazzata. Provo un mucchio di sentimenti contemporaneamente. Non so spiegarlo.»
Stavo liberamente offrendo a Daniele il pass per la mia testa? Non capivo perché gli avessi rivelato i miei sentimenti. Probabilmente perché non riuscivo a mentirgli.
«Forse si chiama amore tutto questo» sussurrò.
Le sue parole non mi erano nuove. Sapevo di essere innamorata di Matteo. Ma non le avevo mai sentite uscire dalla sua bocca. Mi fece un effetto strano. Tuttavia, anche lui aveva quindici anni. Forse anche lui come me, Sara, e forse Claudia, amava qualcuno. Conosceva davvero tutto ciò che provavo io? Anche lui provava quei sentimenti?
Daniele sospirò, guardò in basso e tacque, sembrava imbarazzato. Forse, lo era davvero. Io feci lo stesso. Evidentemente lo eravamo entrambi. Non avevamo mai parlato seriamente e apertamente di questi argomenti. Poggiai la testa sul banco e la mia mente tornò involontariamente a pensare a Matteo. Con la coda dell'occhio mi resi conto che Daniele mi stava fissando. Chissà cosa stava pensando. Probabilmente rifletteva sul fatto che fossi pazza: troppo presa da questa storia a senso unico. O forse anche lui soffriva per amore. Poi lo vidi tendersi verso di me e sbirciare il foglio su cui avevo scritto.
«Ehi! Ma cosa fai?» lo accusai.
Fui terribilmente irritata dal suo gesto. Perché non rispettava la mia privacy? In fondo eravamo solo amici. Perché tanta curiosità? -Niente, niente. Ero solo un po' curioso. Ecco tutto.»
«Curioso? Tu... che dici di conoscermi da una vita? Come posso fidarmi di te, se ti scopro a leggere i miei pensieri?» la mia irritazione si stava trasformando in rabbia.
«Se sono tanto segreti perché non tieni un diario segreto e scrivi lì? Almeno nessuno potrà leggere i tuoi pensieri top secret» scandì bene le ultime parole.
«Non si può essere nemmeno liberi di scrivere su un foglio?»
«Certo che puoi, ma... io...»
«Giattini e Bati!» ci interruppe il professor Righi. «Adesso basta! Fuori! Andate a chiacchierare in corridoio. Almeno lì non disturberete la lezione»
«Ci scusi, professore. Non volevamo» disse Daniele, con tono da cane bastonato.
«Non voglio sentire scuse! Fuori!!»
Uscimmo dall'aula in silenzio, Daniele chiuse piano la porta. Il corridoio era vuoto e muto. Mi lasciai scivolare con le spalle al muro e scesi giù, sedendomi per terra. Silenzio. Non c'era proprio nessuno. Davanti a noi un'altra classe, una seconda e poi, in fondo a destra, c'era la classe di Matteo, la 4ˆG. Daniele fece per parlare, ma appena aprì bocca due ragazze apparvero nel corridoio. Le guardai, curiosa. Le conoscevo di vista: erano di quarta e andavano in classe con Matteo. Mi sembrò che una guardasse dalla mia parte, così feci loro un timido cenno con il capo per salutarle, ma non ricambiarono. Forse troppo impegnate a non far cadere due mucchi di fotocopie, o forse semplicemente mi ignorarono. In fondo, non ci eravamo mai parlate. Andavano dritto. Alla fine del corridoio svoltarono a destra: sentii una porta aprirsi, alunni che parlottavano tra loro, un professore che tentava di spiegare qualcosa, cercando di essere ascoltato, o per lo meno sentito. Come un impulso incontrollato, immaginai quella stanza. Cosa poteva fare Matteo in quel momento, in quell'aula così rumorosa? Forse stava ascoltando il professore. No, non era come Daniele, non mi sembrava proprio il tipo. Oppure stava chiacchierando con i suoi compagni. O magari era seduto all'ultima fila ascoltando con gli auricolari un po' di musica sul suo iPod: in pausa lo faceva spesso. Oppure, cosa più probabile, se ne stava accanto di banco alla sua Giada.
Un rumore secco e la porta si richiuse. Finii di immaginare e ci fu nuovo silenzio.
«Credevo che ti alzassi per andare e sbirciare nella sua classe» disse Daniele, ora sorrideva.
«Non dire stupidaggini, Dan» feci una pausa. «Comunque... scusa. Ho rovinato la tua condotta immacolata. Non volevo.»
Mi sentivo veramente in colpa. Era la prima volta che l'avevano buttato fuori dalla classe. Per me era la seconda. La mia prima volta, alle medie, perché non avevo fatto un compito a casa e avevo risposto sgarbatamente ad un professore.
«Non ti preoccupare, non è niente di grave» mi rassicurò.
«Grazie, sei sempre così comprensivo con me. Mi dispiace averti trattato a quel modo prima, in classe.»
Dovevo farmi perdonare per la mia rispostaccia. Lui era sempre così gentile, non si meritava una pessima amica come me.
«Dai, non ti preoccupare. Ti capisco. Eri infastidita dal fatto che qualcuno potesse leggere i tuoi sentimenti... che ovviamente resteranno tuoi. Ti capisco perfettamente. Sono io... che ho sbagliato.» Sì, in effetti ero molto infastidita. Però capii che di lui mi potevo fidare. In classe si era scusato anche per me ed il prof l'aveva buttato fuori per colpa mia. Sapevo che su di lui potevo contare.
«Grazie. Sei un amico.»
Bisbigliò qualcosa, ma non riuscii a capire. Mi alzai. Sentivo il bisogno di fargli capire che ero dispiaciuta per il mio comportamento e mi avvicinai piano a Daniele, abbracciandolo un po' goffamente. Da piccoli ci eravamo abbracciati tante volte, ovviamente. Ma crescendo il contatto fisico era molto diminuito, a causa probabilmente dell'imbarazzo reciproco. Improvvisamente mi sentii gli occhi lucidi. Che strana reazione. Non sapevo spiegarmelo. Forse ero frustrata per la mia situazione con Matteo. O forse ero semplicemente dispiaciuta per Daniele. Vedevo appannato, il che significava che i miei occhi dovevano straripare. Fui costretta a battere ciglio e la prima lacrima mi solcò il profilo della guancia. Non c'era alcun singhiozzo nel mio pianto. Strano anche questo. Di solito, quando piangevo non facevo altro che singhiozzare. Forse Daniele non se n'era accorto. Lo sperai con tutta me stessa. Ma ecco che in quel momento lo sentii stringermi a sé. Avevo bisogno di un conforto. Avevo bisogno di sfogarmi, forse. Così lo strinsi anch'io. Il primo singhiozzo si fece sentire, in ritardo. Le lacrime cominciarono a scendere mute lungo il mio viso, per poi fermarsi bagnando la camicia di Daniele. Sentii il bisogno di parlare, di esternare quello che mi bruciava dentro.
«Perché? Perché provo tutto ciò? Perché sto così?» sussurrai.Non rispose. Sollevò una mano, e mi allontanò quanto bastava per guardarmi negli occhi; accarezzò una mia ciocca di capelli che si era intromessa tra i nostri sguardi. Aveva degli occhi decisamente fuori dal comune. Lo conoscevo da una vita e non avevo mai notato quelle sfumature verdi, nel cioccolato dei suoi occhi...
Credevo di essermi tranquillizzata, ma il mio cuore prese a palpitare, sempre più veloce. Cosa mi stava succedendo? Possibile che fosse solo la mia fragilità del momento a farmi sentire sicura tra le sue braccia? Inspirai profondamente, imponendomi di smettere di piangere, mi asciugai il viso con la manica della maglia e mi allontanai lentamente dalla sua spalla. Anche lui lasciò la presa.
«Grazie...» mormorai. Mi sorrise, sincero.
«Linda, io ci sarò sempre per te. In qualsiasi giorno tu abbia bisogno di me, e a qualsiasi ora...»
All'improvviso, nel silenzioso corridoio, una voce ci fece sobbalzare.
«Ma guarda che bella neo-coppietta. Per favore, queste cose non si fanno nel corridoio. Almeno andate in giardino o nei bagni.»
Una ragazza con le lentiggini e con mille ricci rossissimi comparì dall'angolo del corridoio. La conoscevo bene.
«Non è come pensi, Giuditta!» risposi stizzita.
«Bè... questa non significa niente?»
La ragazza agitò una foto con la mano destra. La scosse un po' e la guardò.
«Com'è venuta bene. Molto nitida. Non vi sembra che starebbe proprio bene sulla prima pagina del giornalino della scuola?»-Ma cosa stai dicendo, Giuditta?» esclamò Daniele, rossissimo in viso.
«Lasciala dire, Dan. La preside non accetterà mai di mettere quella insulsa foto in prima pagina. A chi può interessare, scusa?»
Era vero, ci aveva colti in flagrante. Eravamo solo amici, e sapevano tutti che non c'era niente tra di noi, anche se dall'esterno poteva sembrare il contrario. Mi accorsi all'istante del potere che aveva quella foto, contro la nostra verità.
Giuditta, senza nemmeno degnarmi di una risposta, fece retro front e se ne andò a passo svelto con aria compiaciuta, facendo svolazzare i mille ricci rossi come il fuoco. Giuditta era la presidentessa del giornalino scolastico. Una ragazza molto strana: silenziosa e solitaria, ma al tempo stesso invadente e presuntuosa. Le piaceva curiosare nei fatti degli altri. Portava sempre con sé la sua Polaroid, pronta ad immortalare i momenti scolastici più piccanti, importanti, privati o pubblici. Una vera ficcanaso coi fiocchi, in questi casi.
«Linda, cosa facciamo adesso?» domandò Daniele.
«Non lo so... dovremmo fare qualcosa?»
«Te l'ho chiesto io...»
Me ne stavo zitta, fissando il pavimento. Pensando e ripensando alle conseguenze di quella foto. Accidenti. Questa non ci voleva, dissi tra me.
«In fondo non c'è niente di male, no? Mica ci stavamo... baciando. Non può scrivere una cosa per un'altra!» Impietrii di colpo. Quelle parole mi fecero davvero paura. Mi voltai a guardare Daniele e vidi il suo sguardo indifferente. Come faceva a restare così calmo e tranquillo davanti alla catastrofe che stava per abbattersi sulle nostre vite scolastiche? Tutti avrebbero interpretato male quel momento rubato, quell'innocente abbraccio tra due buoni amici. Già. Ma questo, purtroppo, lo potevo sapere solo io. Era solo la mia insulsa, piccola e insignificante verità, contro la foto di Giuditta, cui tutti avrebbero creduto.
Daniele continuava a guardarmi senza dire una parola. Dentro di me, invece, si stava scatenando un putiferio.
«No, no, no! Non deve! Non può... no! Assolutamente no!»
«Cosa?» domandò Daniele.
Possibile che non si accorgesse del gigantesco potere che aveva quella maledettissima foto?
«Ma non capisci? Se Matteo vedesse quella foto penserebbe che io sono impegnata. E questo non deve succedere!»
«Smettila, Linda. A lui non gliene fregherà nemmeno. Lui ha Giada. Non lo sfiorerà nemmeno la notizia. Perché mai dovrebbe essere turbato dal fatto che tu sei impegnata? Anche se in realtà non lo sei...» finì la frase sfumando sempre di più il suo entusiasmo.
«Dobbiamo fermare Giuditta, Dan. A tutti i costi!»
«E cosa pensi di fare?»
«Non lo so purtroppo... adesso non lo so proprio. Penserò ad un buon piano. Sai, come si dice, la notte porta consiglio...»
Rabbrividii al solo pensiero di passare la notte a trovare una contromossa ai piani di Giuditta. Daniele fece un lungo sospiro. Un suono acuto ci fece sobbalzare. Era la campanella che decretava la fine della seconda ora e l'inizio dell'intervallo delle 10:30. Io e Daniele aspettammo fuori finché non uscì il professor Righi, che ci dette il permesso di rientrare in classe, visto il termine della sua ora. Andai verso il mio banco e presi dallo zaino il mio portafogli. Di solito andavamo a prendere qualcosa da sgranocchiare al piccolo bar della scuola. Feci un cenno con la testa annuendo a Sara e Claudia, che mi stavano aspettando sulla soglia per andare al bar; invece Daniele restò in classe, seduto sul suo banco, a parlare con Giovanni e altri compagni. Gironzolando per i corridoi non facevo altro che guardarmi intorno e ogni tanto mi voltavo, nella speranza di incrociare Matteo. Lo facevo sempre. Ma anche se lo vedevo, lui non mi considerava. Quella volta, quando parlammo in autobus, evidentemente per lui non significò niente. Logico. Lui amava Giada. Ma io, la logica, non sapevo nemmeno cos'era. Sentivo solo il cuore, anche se mi faceva soffrire. Avrei tanto voluto dare retta alla logica. Anzi, avrei dovuto.

Non ti vorreiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora