Capitolo 1. Buongiorno

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"«Ehi, Robby? Dove hai nascosto la mia maglietta? Caspita, farò tardi a scuola!» urlai spazientita dalla mia camera.
La sera, prima di andare a dormire, preparavo sempre l'abbigliamento per il giorno successivo. Così perderai meno tempo la mattina, mi aveva sempre"ripetuto mia madre. Purtroppo però non teneva mai conto di quella peste: Roberto era il nome per intero di mio fratello minore, un ragazzino di dodici anni che non faceva altro che stuzzicarmi da quando era nato. Adorava farlo, anzi, direi che era il suo passatempo preferito.
Io e Robby vivevamo insieme ai nostri genitori in un paesino collinare della Toscana, Carmignano. La nostra casa faceva parte di un antico edificio padronale cinquecentesco, ristrutturato da una quindicina d'anni, dal nome Villa Raspanti, che sorgeva su un'altura all'inizio del paese. Sinceramente, era un bel posto dove abitare: il panorama era mozzafiato. Dalla finestra della mia camera da letto potevo mirare il paesaggio collinare e, abbassando lo sguardo, scorgevo un lago dove qualcuno ogni tanto vi andava a pescare. Aveva un che di poetico. Capivo benissimo perché mia madre se ne era innamorata. Tuttavia non avevamo sempre vissuto tra quelle leggiadre colline. Venivamo da Milano: città troppo caotica, troppo frenetica. Io - come mia madre - preferivo la calma e la tranquillità. Certo, non c'erano tutti pro; c'era anche qualche contro. Carmignano era un po' lontano da tutto: dalla scuola, dai centri commerciali... ma papà doveva trasferirsi per lavoro a Firenze e la "la mamma era letteralmente stata rapita dalla bellezza di quel paesaggio collinare. In fondo, io e Robby eravamo troppo piccoli per affezionarci a Milano, quando l'abbiamo lasciata - io avevo cinque anni e Robby aveva appena dodici mesi - quindi, in definitiva, Carmignano fu una buona scelta e io ne ero felice.
Tutte le mattine, alle 6:30, suonava quella sveglia infernale che tutti gli studenti, come me e Robby, odiano. Quella era una delle tante mattine.
«Te lo dico per l'ultima volta. Ridammi la maglietta! Subito!!»
Non sentii nessuna risposta e così, furiosa, entrai in camera di Robby - la camera accanto alla mia - spalancando la porta, che rimbalzò sul gommino che mio padre aveva sistemato saggiamente a terra, per evitare di rovinare le pareti.
«Non sei un po' grandicello per queste cose? E poi perché sei già sveglio?»
Non vedendo nessuno in camera, pensai che si fosse nascosto per casa e cominciai a cercarlo, iniziando dal suo armadio. Mi avvicinai e tesi la mano verso la lucida maniglia dorata per aprire un'anta, quando, un urlo dietro le mie spalle mi bloccò.
«NO!! Ferma! Ferma! Va bene, mi arrendo... tieni la tua maglietta.» Robby spuntò da sotto il letto con la "mia maglia in mano. Ero meravigliata del suo stranissimo comportamento e avrei voluto chiedergli spiegazioni, ma decisi di lasciar perdere e andare a far colazione, non volevo sprecare altro tempo prezioso.
Mentre scendevo le scale, pensai a lui. Chissà se quella mattina lo avrei visto""in autobus. Il mio cuore cominciò a tamburellare più veloce, solo al suo pensiero. Tutte le mattine prendevo l'autobus per andare al liceo scientifico Leonardo da Vinci a Firenze. Mi iscrissi allo scientifico perché ai tempi della scuola media, mi piaceva la matematica. Poi, all'improvviso, iniziato il liceo, iniziai a odiarla. Senza motivo. Forse era colpa della prof. Chiatti, oppure merito del prof. delle medie che l'aveva resa piacevole. Comunque, la scuola era un dovere, che mi piacesse o no. Dopotutto, aveva anche i suoi lati positivi. I miei pensieri tornarono prepotenti ad una mattina di tre settimane fa, in uno stupendo flashback: seduta sull'ultimo posto libero dell'autobus arancione, pensai subito a lui; sapevo che prendeva la mia stessa linea, dovevo solo aspettare qualche fermata. Eppure mi sembrava un'eternità. Non vedevo l'ora di ammirare quei suoi occhi azzurri e limpidi, come l'acqua di un ruscello di montagna. Incontaminati. Ripuliti da qualsiasi macchia di dolore. Poi eccolo salire: incredibile, il tempo passava come un fulmine se pensavo a lui. Lo vidi e mi sentii lo stomaco sottosopra. Il cuore era partito in quarta, sentivo distintamente ogni battito, ovviamente accelerato. Stava esaminando il ristretto spazio dell'autobus in cerca di un posto "a sedere, ma erano tutti occupati. Il mio istinto mi disse di alzarmi. Non era un po' eccessivo cedergli il mio posto? Sì, lo era. Decisi di starmene ferma lì, osservandolo. Si strinse nelle spalle e si aggrappò ad una maniglia per non sbilanciarsi mentre il bus ripartiva. Era rimasto lì davanti all'entrata e guardava la strada, dandomi le spalle. Non so se mi avrebbe riconosciuto. Frequentavamo la stessa scuola, forse mi aveva visto qualche volta: era mai possibile che in due anni non mi avesse mai notata? Trovai subito la risposta. Sì. Era possibile. Non mi aveva mai guardata, mai un cenno di saluto. E io... che lo pensavo di giorno e lo sognavo di notte: patetica.
L'autobus si fermò, salirono molte persone e per un istante lo persi di vista. Poi individuai il suo zaino, un Eastpak tutto nero. Stava indietreggiando per fare spazio alle persone che entravano nel bus e lo riempivano. Veniva sempre più verso di me. Poi si voltò e altri due passi lo portarono proprio accanto a me. Lo sbirciavo dal basso: guardava dalla mia parte, fuori dal finestrino. Il mio cuore ormai era incontrollabile. L'autobus stava per ripartire e lo vidi sbilanciarsi "all'indietro. Fece per aggrapparsi a qualcosa, ma non trovò niente e strinse la mano nel vuoto. Allora, d'istinto, lo afferrai per un braccio e lo tirai verso di me. Tornò in equilibrio e si aggrappò saldo allo schienale del mio posto.
«Grazie» disse.
Paralizzata dall'emozione, riuscii a balbettare soltanto un timido «Prego».
Rimase in silenzio ad osservarmi, squadrandomi senza pudore. Sentivo le "guance prendere fuoco sotto i suoi occhi. Era un vero e proprio incendio, ma non riuscivo a spegnerlo in nessun modo. Guardavo giù, verso le mie Converse a pois colorati. Sentivo sempre il suo sguardo addosso, tra una svolta a destra, a sinistra, una buca, un semaforo. Poi, all'improvviso, tornò a parlare.
«Ciao. Piacere, io sono Matteo. Stai andando a scuola vero?»
Alzai la testa per guardarlo, fissava il mio Eastpak azzurro e il fiocco rosa che vi avevo appuntato con una spilla. Non riuscivo a credere che quella fosse la prima volta che parlava con me. E com'era straordinariamente... educato.
«P-piacere mio» balbettai timida e ripresi fiato. «Io mi chiamo... Linda»
Mi sorrise.
«Che scuola frequenti?» chiese, palesemente curioso.
Questa domanda era la risposta ai miei dubbi precedenti: non mi aveva mai notata. Ma allo stesso tempo significava interesse verso di me.
«Frequento lo scientifico Leonardo da Vinci a Firenze.»
Mi seccava chiedergli la stessa cosa, ovviamente sapevo che scuola frequentava, e conoscevo anche la sua classe. Ma quando sentì la mia risposta, il suo sorriso si allargò."«Davvero?» sembrava entusiasta. «Anche io frequento la stessa scuola!» fece una breve pausa, poi tornò a parlare. «Strano, non ti ho mai visto in giro...».
Sembrava stesse pensando ai casi in cui poteva avermi vista. Imbarazzatissima, mi limitai a sorridergli. Cosa potevo dirgli? Di cosa potevamo parlare? Avrei attirato la sua attenzione? Mille, stupide domande nascevano nella mia testa. Per evitare figuracce, decisi di aspettare che fosse lui a parlarmi. Attesi... ma ormai, eravamo alla nostra fermata. Mi alzai controvoglia dal mio posto, aspettando che lui si allontanasse prima di me. Una volta scesi, lo seguii con lo sguardo, rassegnata. A circa due metri da me lo vidi voltarsi, sembrava cercasse qualcuno. Incrociò il suo sguardo con il mio e sorrise. Cercava... me?
«Bè, ci vediamo in giro. Ciao... ehm... ciao!»
Furono le sue ultime parole. Non ricordava neppure il mio nome.

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