Di una corda e di un archetto

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Clint

A fatica, sorreggendomi con l'aiuto di due grucce, entro in platea. Seguo la maschera che mi fa strada al mio posto: una poltronissima in prima fila, centrale, imbottita di velluto rosso.

"Si goda il concerto, signor Barton" mi saluta e non attende che le dia la mancia. Mi guardo intorno alla ricerca dei miei colleghi, che mi hanno convinto a partecipare a una serata di beneficenza, organizzata il giorno di San Valentino, per raccogliere fondi per bambini disabili.

Non è roba per me, un concerto di violino. Tony e Natasha hanno insistito, e oltre al biglietto mi hanno mandato uno smoking e una limousine che mi accompagnasse dal mio appartamento a qui.

Mi ritrovo vestito come un pinguino, seduto fra due coppie, e mangio la foglia... è uno scherzo, o un modo per farmi uscire di casa dopo l'incidente di due anni fa, da cui mi sono ripreso a stento. Vivo ma malconcio, non dedico tempo alla socialità. Gli amici Avengers non verranno, è palese.

Mentre sto pensando di andarmene, un fattorino si dirige verso di me, portando con sé un mazzo di rose a stelo lungo, di un bianco quasi iridescente "Gliele manda Natasha Romanoff" mi dice posando i fiori sulle mie gambe "le raccomanda di farne buon uso".

"Che bella idea! Non sarà l'unico a omaggiare l'artista. Merita davvero. L'ha già sentita?" la donna alla mia destra tesse le lodi della violinista.

"No, non l'ho mai vista" nemmeno in viso, giacché sui manifesti non compare di persona e non ero tanto interessato a navigare in internet per approfondire un evento cui non volevo partecipare.

"Ne rimarrà estasiato. Io e mio marito siamo venuti qualche anno fa e ogni volta che Rafflesia suona a New York siamo presenti. Oggi poi... venire qui aveva un senso speciale. Lei più di ogni altro dovrebbe capirlo" utilizza il solo nome di battesimo della musicista, come fosse un'amica e indica le mie grucce "auguri di una pronta guarigione".

Guarigione, dice. Sono lontano dalla guarigione, pronta poi. Travolto da un gatto delle nevi, il cui peso mi ha schiacciato il torace e le cui lame hanno ferito la mia gamba sinistra in modo quasi fatale, ne sono uscito con trenta ossa rotte. Trascorsi due anni, cammino a malapena, allenamenti e arco nemmeno a parlarne. Ringrazio la signora con un cenno del capo, osservando la sala.

Il teatro è zeppo in ogni ordine di posti, percepisco il senso di attesa fra gli astanti.

La fibrillazione del silenzio e del buio calato a luci spente sfocia in un applauso fragoroso all'apertura della tenda di velluto carminio del sipario.

Una ragazza in abito rosa fucsia lungo fino ai piedi da cui sbucano le punte delle scarpe della medesima nuance, il violino in una mano e l'archetto nell'altra, saluta il pubblico e cammina piano  verso un ensemble di strumenti già schierato, molto più esiguo che un'orchestra vera e proprio.

È così vicina che vedo una patina di commozione nei suoi occhi intensi. È la mia, nello scoprirla.

Sono i sette secondi che cambiano l'anima e la vita, quelli in cui la prima impressione diventa imprinting ancestrale.

Certo che mi abbia fissato, e dedicato un sorriso incantevole, attendo che segga.

È un attimo. La musica riempie l'aria, note di una melodia sconosciuta volano fra le teste di attenti spettatori, rimbalzano sulle pareti di una sala stregata dal contemporaneo movimento del corpo della violinista.

I lunghi capelli d'ebano scuro ondeggiano, seguendo le braccia sullo strumento; le palpebre abbassate, quasi chiuse, denotano la memoria del brano, in assenza di spartito.

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