XXI

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Quando mi svegliai, non era ancora sorta l'alba. Nonostante la stanza fosse avvolta dal buio, riuscivo a sentire la presenza di qualcun altro accanto a me nel letto. Il suo respiro era regolare e familiare. Mi abituai al buio solo dopo qualche minuto e osservai ancora assonnata il volto addormentato di mia sorella. I suoi lineamenti, tanto simili ai miei, erano calmi.

Avendo ricordato cos'era davvero successo ai nostri genitori, non sentivo più alcuna traccia di rabbia nei suoi confronti. Capivo perché se ne fosse andata, perché mi avesse abbandonato. Lei non era stata debole come me. Aveva avuto la forza di superare la loro morte. Io, al contrario, ero stata crudele, avevo permesso che due persone venissero torturate per interi anni pur di accontentarmi.

Le accarezzai la guancia. «Spero che un giorno potrai perdonarmi.»

Non volevo restare a letto e avevo bisogno di concludere quella storia, di mettere da parte la mia debolezza e diventare una persona forte. Non avrei potuto fare niente di tutto ciò finché quelle due persone non fossero state liberate. Finché io non avessi visto Federico.

Mi alzai, facendo poco rumore. Non dovetti cambiarmi, avendo dormito senza mettermi il pigiama. Presi solo il telefono con me e uscii dalla casetta di mia nonna.

La radura era silenziosa, solo il vento a farmi compagnia. Il falò era accesso, ma molto debole. Mi chiesi perché lo lasciassero accesso costantemente, se avesse un valore simbolico. Forse rappresentava la stessa vita o energia che attraversava la congrega.

Mi fermai vicino ai primi alberi, prendendomi i minuti che mi servivano per raccogliere il coraggio. Digitai il numero di Fede e lo chiamai. I secondi in cui non rispose mi resero ansiosa, il cuore sempre più martellante nel petto.

«Emma? È successo qualcosa?» la sua voce roca era preoccupata.

Sentii una fitta al cuore e mi dovetti sedere sulla radice sporgente di un grosso albero.

«Vieni al lago» dissi, mordicchiandomi il labbro al fine di non scoppiare a piangere. «Dobbiamo parlare dei miei genitori.»

Non aspettai che rispondesse e spensi la chiamata.

Restai seduta altri lunghi minuti, il vento che mi sollevava i capelli. Sembrava incitarmi ad alzarmi e porre fine a quel tormento. Annuii in risposta, issandomi sulle gambe. Camminai lentamente, sicura di avere a disposizione tutto il tempo che volevo e, in parte, desiderosa di rimandare quel momento quanto potevo.

«Dove stai andando?»

Quella voce improvvisa mi fece sussultare.

Mi girai di lato, fissando sorpresa la figura appoggiata ad uno degli alberi alla mia sinistra. Non lo avevo notato e non riuscii a capire come facesse a trovarsi lì.

«Non sono affari tuoi» risposi rudemente.

Avevo bisogno di solitudine e Mikalai era l'ultima persona che volevo vedere.

Restò immobile, osservandomi con attenzione. Gli rivolsi un'occhiataccia e proseguii. Mikalai si allontanò dall'albero e mi seguì.

«Lasciami in pace!» gridai, fermandomi di botto. «Non voglio che tu mi segua.»

Le sue labbra erano sigillate, il suo sguardo duro, come se mi stesse rimproverando per essere sgattaiolata fuori da sola. Attesi che mi rispondesse, ma quando capii che non lo avrebbe fatto, tornai a camminare, questa volta con passo più deciso. Lui fece altrettanto.

Mi fermai solo sulla riva del lago, lo sguardo fisso sulla costa opposta. Quando vidi due figure minuscole ferme sul marciapiede, il mio cuore perse alcuni battuti e io dovetti appoggiarmi contro un albero.

The Devil's lie | MOMENTANEAMENTE SOSPESADove le storie prendono vita. Scoprilo ora