Linea 6

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È tardi, tardissimo! Il banditore non è una maestra, non aspetta nessuno, e io non posso comportarmi ogni volta come un bambino: sempre in ritardo. L'ultima volta? Stessa fine. Ho perso metà delle cianfrusaglie messe all'asta. Ecco, sì, erano solo cianfrusaglie. Non c'era niente, non ho perso nulla di valore. Solo cianfrusaglie. Ma oggi no, oggi è l'ultima giornata, la più ricca! Oggi cambia la musica. Ho trenta minuti. Trenta minuti per alzarmi, cambiarmi, e raggiungere quel posto. Doccia? No, non c'è tempo. Caffè, il caffè va bene. Preparo la moka e cerco dei vestiti puliti. Pantaloni sul letto, come al solito; camicia, camicia... sulla sedia; il maglione? Dov'è il maglione? Sento gorgogliare il caffè. Ha fatto presto, deve aver avvertito la mia fretta. Eccolo! Il maglione è sul tavolo in cucina. E prima dove avevo gli occhi? Non importa, è tardi. Poggio camicia e pantaloni, così posso prendere questo benedetto caffè. È un po' annacquato, ma fila giù e scalda, brucia la lingua. Fa a pugni con il freddo che trapassa dagli infissi scassati: togliermi i vestiti con cui ho dormito per mettermi gli altri è un'impresa. Cazzo, si gela. Ma devo muovermi, è tardi, tardissimo. Via i pantaloni, prendi quelli nuovi. Via la maglia, prendi la camicia. E infine il maglione. Devo comprarne uno nuovo. Oggi, sì, da oggi. Vado in bagno per darmi un'occhiata. Sono uno schifo. Ma non posso perdere tempo a sistemarmi, non mi serve nessuna sistemata. Sì, sono pronto. I soldi sono sul mobile all'entrata. Le chiavi insieme a loro, al solito. La giacca è per terra, dev'essere caduta. Sotto di lei le scarpe. Fuori fa ancora più freddo. 
Avrei dovuto prendermi un cappello di lana. Il vento mi graffia le nocche, mi graffia la faccia. Anche le tasche sono ancora fredde. Lungo la via non c'è nessuno. In paese chi vuoi che esca in giornate come queste? Tengo la testa bassa, mi copro il più possibile da questo vento. Alzo lo sguardo solo per controllare dove sono. Poi lo riabbasso, e cammino, cammino fino alla fermata dell'autobus. Un giorno avrò di nuovo abbastanza soldi per un'auto. L'ho promesso. Ma adesso devo starmene al culo che mi gela, e ai seggiolini ghiacciati. Schiaccia quell'acceleratore, sbrigati. Non posso aspettare troppo tempo questo autobus.
Inizio a pensare che arriverò in ritardo anche oggi. E anche oggi, ovviamente, i primi pezzi saranno i migliori ad andare via; dovrò litigare per farmi entrare ad asta cominciata; tornerò a mani vuote, o – peggio – con spazzatura per cui avrò solo sprecato altri soldi. Facciamo così: al primo starnuto me ne torno a casa, ho deciso. Con tutto questo freddo non ci dovrebbe volere molto, eppure non ho ancora starnutito da quando sono uscito. Il naso, però, mi cola comunque. Non mi è rimasto nemmeno un fazzoletto in tasca. Mi ricordavo di averne ancora un paio, dove stanno, dove stanno... nemmeno nella tasca interna. Dove stanno...
«Che fa? Non sale?»
L'autista mi guarda, la porta è aperta. Quando è arrivato? Mi alzo, apro la bocca per rispondergli, ma starnutisco. Ancora. Ancora. Tiro un sospiro.
«Grazie. Fa un freddo qui».
«Lo so. Venga, si muova».
Ringrazio ancora. Sull'autobus c'è solo un tale con la testa poggiata sul vetro. Mi dà la schiena. Ovunque io possa mettermi, sarà sempre troppo vicino a me. Mi accontento di stare in fondo. Sembra il posto migliore. Mi siedo, e finalmente sento un po' meno il freddo.
Il tale mi inquieta, ma sembra dormire. È tutto rannicchiato.
L'asta non comincerà tra molto. Ce la faccio con il tempo? No, non ce la farò mai, non c'è tempo. Quasi quasi arrivo al capolinea e torno indietro. Sono già stufo. Si sta così bene, qua. C'è silenzio. Non ho nulla da fare. Nemmeno se volessi, non posso. Non devo. Nulla a cui pensare. Ci dormirei qua sopra. Ci dormirei. Provo a chiudere gli occhi, per riposarli. Ma rimango sveglio, lo prometto, non posso dormire, riprenditi. Al capolinea non devo arrivarci. È la tua giornata oggi, non distrarti. Solo cinque minuti. Solo cinque. Non un minuto di più.
«È mio, mio! È solo mio, vattene! Lasciami stare!»
Apro gli occhi. Non credo ne siano passati più di un paio, di minuti; qualcuno urla.
«Non mi toccare! È mio, via!»
È quel tale. Lo guardo meglio, e sembra stringere qualcosa tra le braccia. Il panico non mi prende. Sembra solo ubriaco, ubriaco dalla sera prima.
«Lasciami! Lasciami, lasciami, lasciami, lasciami!» dice, con sempre meno voce.
Risponde l'autista. Con il silenzio non ha bisogno di urlare; l'autobus non è così grande.
«Non ci faccia caso, è normale».
«A me non sembra...»
«No, no... normale, lui, mica lo è. È normale che faccia così, ormai. Mi capisce?»
Non rispondo. Il tale si è zittito del tutto.
«Ogni tanto parte: si accende, e parte. Inizia a urlare, prendersela con qualcuno che vede solo lui».
«Non potete farlo scendere?»
«E per chi ci ha preso? Ci abbiamo provato, ma quello non vuole scendere. Nemmeno ci sente. Non sappiamo nemmeno come faccia a sopravvivere, in tutta onestà. Ma tanto, sa, qui non c'è nessuno, l'autobus lo prendete voi due. Mi sbaglio?»
«Non lo so».
«Non se la prenda. Comunque, ormai lo lasciamo stare. Dorme, ogni tanto s'accende. Ma finisce lì, non fa male a nessuno. Basta che non lo tocca. Poi la notte, quando l'autobus è in rimessa, non sappiamo che fa. La mattina sta qui, ma la notte? Vallo a capire».
«C'è gente strana».
«Eccome. C'è gente strana, ha ragione».
Gli occhi non mi si chiudono più. Cos'è che stringe?
«Cos'è che è solo suo?»
«Non l'ho mai capito. La prima volta che l'ho visto, pensi, era pure tranquillo. Lo avevo preso su a qualche fermata più avanti, dopo le faccio vedere. Quello è salito, ma non ho mica guardato che aveva in mano, se aveva qualcosa. L'ho salutato e basta. E poi si è seduto, lì».
«Non ascolta nessuno?»
«No, gliel'ho detto. Ecco, sì, dicono che abbia scoperto fosse qualcosa di valore, ma parlo di un numero da almeno sei cifre. E così gli è venuto un colpo! Poi, sa, una cosa del genere la stringerei anche io così».
«Chi è che lo direbbe?»
«Altri autisti, alla rimessa. Valli a capire pure loro».
Sei cifre. Ma da qui in fondo non si vede niente. Sbircio, ma niente. Me lo immagino nella cassa toracica, come se fosse il suo cuore.
«Lei ci crede?» mi chiede.
«Come?»
«No, dico... lei ci crede? A questa storia, intendo».
«È bello crederci».
«Eccome!» dice, e ride. Poi continua.
«Se mi trovassi nelle mani, io, tutti quei soldi... sai che farei? No, no, non glielo dico. Meglio di no! Ma non credo sarei contento, gliel'ho detto. Sono troppi soldi, quasi mi fanno paura» e ride, ancora. Il tale ha cominciato a russare. E nessuno ha mai provato a metterci le mani sopra?
«Avanti, non si offenda! Lo dico per lei»
Lo dice per me? Non sono neppure offeso. Non rispondo.
«Allora, lei non scende?»
«Non ora».
«Mi faccia un cenno lei».
«Grazie».
Quanto russa questo. E cosa stringe? Cos'ha in mano? Cos'è che può valere tanto? Ma dove lo ha preso... sei cifre. Sei cifre. Da qua non si vede niente. Mi alzo, in silenzio. Faccio piano. Un sedile alla volta. Un dosso, il piede sul freno e io sono a terra. Perché si è alzato? Deve scendere? Da qua si vede meglio, il tizio. Ma è girato verso il finestrino. Ancora un passo. Fai piano. Nessun dosso, nessun piede sul freno. Dal sedile di fronte ora posso girarmi. Fa un cattivo odore. Ciò che stringe dev'essere piccolo, nemmeno da vicino riesco a vederlo. Non si accorgerà mai di me. Basta spostare la giacca, basta spostarla. Basta...
«Come le dicevo, è qui che è salito la prima volta. Questo me lo ricordo, non sale mai nessuno. Quando qualcuno sale, me lo ricordo e...»
«Cazzo! Cazzo!»
«Cazzo?»
«Devo scendere, aspetti!»
«Anche lei? Pensi...»
«No no, devo correre, mi dispiace, ma è stato un piacere, ci rivedremo al ritorno!»
Scendo, corro. Seguo i cartelli lungo tutto il perimetro del capannone. Dritto, dritto. Poi a destra. Al secondo angolo, gira. Arrivo all'entrata. La porta è aperta. Mi fermo, faccio un respiro profondo e riprendo aria. Entro.
Provo ad aprire bocca, ma la ragazza è più veloce; parla e tira fuori fogliacci da un cassetto.
«È già registrato?» mi chiede. Sbircio oltre la sua faccia, e oltre l'angolo che mi divide dalla sala d'esposizione.
«Mi scusi... è già registrato?»
«No, vorrei farlo ora».
«Le iscrizioni sono chiuse, da circa quarantacinque minuti...»
«Come?»
«...e ne mancherebbero quindici all'inizio dell'asta. Non avrebbe nemmeno il tempo per controllare tutta la sala esposizioni, il catalogo, e noi non avremmo il tempo per aggiungerla al registro».
«Io devo entrare».
«Io non posso farla entrare, mi dispiace. Arrivederci».
«Ma devo».
«Sarebbe inutile. A chi verrebbe intestato l'oggetto, in caso vincesse? Non c'è un nome».
Sospiro.
«Almeno posso avere il catalogo? E dare un'occhiata in sala».
«Un'occhiata in sala?»
«Per domani, se riuscissi a tornare».
«Per... domani. Certo, ma faccia veloce».
Anche il cartello lo diceva chiaro e tondo: oggi è l'ultimo giorno. Non c'è nessuna seconda giornata. Glielo avrei dovuto dire. Mi prendi anche per il culo? Non ci penso già abbastanza io, a prendermi per il culo? Guardali. Monete, francobolli, fumetti, figurine, modellini, statuine, gioielli, pietre, orologi, penne, carte, banconote. Questa avrebbe dovuto essere roba di valore. E lo è, guardala, guarda qua. Convinciti al più presto che ti sbagli, che in realtà è stata una fortuna arrivare in ritardo, che non vale niente questa roba. Non vale la pena neppure provare a rubarla, fregare questa stronza, riempirsi le tasche. Esci, e basta. Hai già perso abbastanza tempo, vuoi perderne altro? È inutile, vattene a casa. La prossima sarà quella buona. Credimi. No, anche se è roba piccola. Non c'è spazio nelle tasche, ci devi mettere le mani. Fa freddo.
«Grazie» e saluto.
«Ha già finito? Ha fatto veloce davvero».
«Sì».
«Allora a domani» dice sorridendo.
Fanculo. È stato ridicolo.
Esco fuori. Attraverso la strada. Mi appoggio al palo del cartello. Linea 6. Aspetto l'autobus. Sei cifre. Lui è stato fortunato, lui sì. Come si fa ad averne tanta? Quanti soldi. Sì, è una storia. Se la sarà inventata, per perdere un po' di tempo. Che storia. Non ci posso pensare. Scivolo a terra, mantenendo la schiena al palo. Abbraccio le ginocchia. Fa troppo freddo.

«Eccola! Salga, salga. Mi scusi per il ritardo, spero non si sia arrabbiato. Allora? Si è congelato? Salga!»
Nemmeno mi guarda. Io mi alzo, e salgo.
«Grazie».
«Che ha fatto questa mattina? Non la vedo mica bene».
«Nulla».
«No, ma come? Nulla? Come non ha fatto nulla?»
Non rispondo.
«E va bene, ha vinto lei».
Manca qualcosa. Qualcuno.
«È sceso?» domando.
«Chi? Il pazzo? Se non lo vede sull'autobus...»
«Perché è sceso?»
«E lo chiede a me? Per chi mi ha preso?»
Vado a sedermi dov'era lui. L'odore è quello, il suo. Fa schifo.
«Credevo ne sapesse qualcosa».
«Ma no! Lo lascio stare, fa quello che vuole. Sale, scende. Che devo dirgli? Di stare qua?»
«No, certo».
Mi siedo.
«E allora, se lo sa anche lei!»
Con il piede calcio qualcosa. Mi abbasso.
«Allora? Mi racconta qualcosa lei stavolta? Come mai stava tutto rannicchiato?»
«Come?»
È piccolo, umido.
«Ho chiesto se vuole raccontarmi qualcosa, poi le ho chiesto come sta. Sa, il viaggio è lungo. Molto lungo».
«Non saprei».
Mi tiro su. È un ciondolo. Una goccia verde. Lucida, viscida. È un po' sporco, ma senza graffi.
«Allora le racconto qualcosa io. Le va? O non le va?»
«Faccia pure».
È questo che stringeva?
«Sa, quando è salito quel tale, mi sono subito insospettito...»
Luccica. Mi acceca. È stupendo. Sorrido. Finalmente.
«L'ho visto subito, era chiaro. Occhi tristi, cupi. Un po' come lei. Si è visto stamattina allo specchio? E che ha detto?»
Sei cifre. Uno, due, tre, quattro, cinque zeri.
«Bastava guardarlo, capisce? Bastava ascoltarlo. Rispondeva in malo modo, scortese. Disperato...»
E ora è mio. Non ci posso credere.
«E quando lo ha trovato, ho alzato la testa e dato un'occhiata allo specchietto».
Guarda quant'è bello.
«Eh?»
Mi ha già visto?
«Niente, niente! Dicevo: tremava! E quanto tremava».
Non mi ha visto, ho vinto io.
«Ci ha messo un attimo...»
Sei cifre.
«Non capiva più nulla».
Solo mio.
«Anche lui ci è cascato, pensi...»
Com'è bello.
«Stessa favola».
E che colore.
«Come fate...»
Non deve vedermi.
«Si guardi, la prego».
Se stesse mentendo?
«È già sordo...»
Se mi avesse visto?
«Ecco, nemmeno cinque minuti».
Nascondilo.
«Nemmeno un paio».
Muoviti.
«Non glielo rubo, si calmi!»
«È solo mio, fammi scendere!»
Devo scappare.
«No, così no...»
Che fa? Si è fermato. Si alza. Devo uscire.
«Vattene! Vattene via!»
«Cosa mi tocca fare...»
I pugni non rompono la finestra.
«Ma...»
Provo con la testa. La testa. La testa.
«Così si fa male».
Si è rotta?
«Ha fatto tutto lei, eh!»
Esco, corro, corro via con il mio ciondolo.
«Mamma mia, che schifo».
È mio!
«Che brutta botta... spero si addormenti presto».
Solo mio.
«Si prepari per il prossimo passeggero».

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