I

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L'avventura di Louis ebbe inizio un mercoledì di aprile nel 1912.

Tutto ciò che possedeva era nelle grinfie del destino, onore e dignità compresi. Un ventaglio di carte da poker fra le dita, una sigaretta consumata di tre quarti, tutta stropicciata, in mezzo alle labbra. Davanti a sé, disposti intorno al tavolino di legno nella sala da gioco, due svedesi dal taglio di capelli discutibili e che vibravano di ansia. Quella stessa ansia che lui si stava impegnando a mascherare per non tradirsi.

«Louis, ma sei pazzo?» ringhiò a bassa voce il suo amico. «Hai scommesso tutto ciò che abbiamo!»

«Quando non hai niente, Niall, non hai niente da perdere» ribatté lui stoico, rubando l'ultima razione di nettare al mozzicone per ammaccarlo nel posacenere. «È il momento della verità. La vita di qualcuno, qui, sta per cambiare» disse in inglese, rivolgendosi a tutti, e avvalendosi di un'inflessione drammatica e vagamente minacciosa. «Niall?»

Il ragazzo sospirò, scagliando sul ripiano l'assortimento infecondo di carte. «Niente» dichiarò, quasi abbaiando.

«Niente» constatò Louis, analizzando la smazzata con un atteggiamento inopportunamente tranquillo. «Zayn?» esortò a uno dei due svedesi.

«Niente» ammise questo, sconfitto.

«Liam?»

L'interpellato non rispose, lasciò che fosse l'evidenza a esprimersi al suo posto, depositando la sequenza di carte innanzi a sé.

«Due coppie» osservò Louis. «Scusa tanto, Niall...»

«Scusa?» ringhiò quello. «Vaffanculo! Hai scommesso tutto il nostro...»

«Scusa tanto: non rivedrai tua madre per un bel po' di tempo» precisò Louis, la bocca che gradualmente si allargava in un ghigno soddisfatto, «perché noi ce ne andiamo in America! Full!» esultò, sbattendo le carte vincenti sul tavolo.

Niall impiegò quattro secondi netti per registrare l'informazione. Dopodiché, scattò dalla sedia e si mise a saltare come un grillo, arraffando i biglietti che davano accesso alla nave e strillando ululati di gioia come un forsennato.

Zayn agguantò la camicia di Louis dal petto e fece per sferzargli un pugno; poi, ci ripensò e colpì invece Liam, per punirlo di aver sfiorato la vittoria e di essersela lasciata scappare, trascinando nel fallimento pure lui.

Louis si tuffò ad abbracciare Niall che, pervaso dall'entusiasmo, si mise a gridare in quella bettola di locale, come a voler deridere tutti i presenti: «Ce ne andiamo in America! Ce ne andiamo in America!»

«Il Titanic va in America» lo corresse un anziano signore con due folti baffi bianchi sopra il labbro. «Tra cinque minuti!» infierì, indicando col pollice un orologio analogico appeso alla parete retrostante, che mostrava incontestabilmente quanto il vecchio bastardo avesse ragione.

«Merda! Diamoci una mossa, Niall, forza! Forza, forza, forza!» incalzò Louis, raccogliendo di fretta le monete seminate sul tavolo per intascarle, lasciandone precipitare qualcuna sul pavimento con un rintrono altisonante, metallico.

A quel punto si catapultarono fuori dalla bettola e, con i sacchi di iuta – che supplivano ai bagagli – caricati in spalla, partirono in quella folle corsa contro il tempo che gli confiscò il fiato.

Le strade di Southampton brulicavano di gente, e districarsi nel traffico non era impresa semplice. Urtarono contro il muso di due cavalli a passeggio e ripresero a sfrecciare lungo il viale terroso senza porsi scrupoli né domande.

Era l'occasione di una vita e per niente al mondo avrebbero permesso che gli sfuggisse.

«Credevo fossi un fulmine!» rimbrottò Louis all'amico, che arrancava e si impegnava a correre più spedito che potesse.

Questo imprecò, adagiandosi sul suo duro accento irlandese, che Louis faticò a decodificare. Risero, mentre attraversavano il ponte che li introduceva alla nave.

«Siamo passeggeri! Siamo passeggeri!» avvertì Louis, presentando i biglietti al controllore.

«Avete fatto la fila per i controlli sanitari?» domandò l'addetto.

«Certo» mentì Louis spudoratamente. «Comunque, non abbiamo i pidocchi. Siamo americani, tutti e due».

Niall sfoderò il sorriso più convincente di cui disponesse benché, sfortunatamente, trasudasse artificio gaelico da tutti i pori.

«Va bene. Salite a bordo» accordò l'addetto, spostandosi di lato per lasciarli passare.

E i due fecero un passo lungo mezzo metro, montando a bordo del mezzo nautico per schizzarvi nelle arterie all'impazzata, storditi di euforia e incredulità.

«Siamo i figli di puttana più fortunati del mondo, lo sai?» gioì Louis, intanto che percorrevano i corridoi asettici contornati di divisori smaltati di bianco lucido.

Si arrampicarono sulle scalinate, finché non approdarono all'ultimo piano, sporgendosi dalla ringhiera della prua che affacciava sulle acque vividamente blu del Golfo del Solent.

«Addio! Mi mancherai!» urlò Louis, sventolando una mano verso la folla che sostava in basso, sul lastricato del porto, e che guardava la nave allontanarsi.

«Non mi scorderò mai di te!» aggiunse Niall; ma né uno né l'altro avevano idea di chi stessero salutando. Perché non c'era nessuno, laggiù, in quel formicaio di individui, che avrebbe patito la loro assenza.

Partivano in cerca di un destino migliore, per realizzare un sogno. Non avevano un rifugio che potesse definirsi veramente casa. Per Niall era diverso, forse. I suoi genitori vivevano a Mullingar, e attendevano il suo rimpatrio da tanto, troppo tempo, ma lui era un cittadino del mondo, adesso. Come Louis. E Louis non aveva nessuno da cui tornare.

Soffocò quei pensieri intrusivi stirando la spina dorsale verso il cielo e lanciandovi uno spartito di note selvagge e impertinenti che contagiarono anche l'irlandese, e i ciuffi dei suoi capelli biondi furono sconquassate dal vento fresco che alitava sulle loro facce. Louis si voltò a guardarlo e sorrise a trentadue denti.

Con la nave che si avviava al largo, i passeggeri cominciarono a sparpagliarsi e i due amici sprofondarono all'ultimo livello dell'imbarcazione, quello adibito all'alloggio della terza classe.

Scovata la cabina affidatagli, una cella contenente due coppie di letti a castello, i ragazzi fecero la conoscenza dei concubini e si sistemarono sulla sponda vacante. I precursori si dimostrarono sorpresi di vederli, forse perché convinti di aspettare Zayn e Liam, ma Louis e Niall non si scomposero e occuparono ciascuno una branda.

«Chi ti ha autorizzato a prendere il letto di sopra, eh?» rivendicò Louis scherzosamente, nel momento in cui Niall s'inerpicò lungo la struttura dei letti.

Poiché non avevano molto altro da fare, risalirono la gradinata e tornarono a prua, aggrappandosi alle funi di sostegno legate all'albero. La corrente mozzava il fiato, e lo spettacolo, giù, era strabiliante. C'erano delfini che infrangevano le onde, pesciolini più minuti che tentavano di impressionarli allo stesso modo.

Louis buttò nell'aria una risata che gli svuotò i polmoni e gli riempì l'anima. Non poteva capacitarsi di dove fosse e di cosa lo attendesse. Era sul Titanic, diretto in America!

«Riesco già a vedere la Statua della Libertà! Minuscola, naturalmente!» gridò Niall, per contrastare il flusso chiassoso del vento che gli inveiva contro.

Louis rise, poi puntò in alto i pugni ed esclamò: «Sono il Re del mondo!» enfatizzando versi di battaglia, di contentezza e di estasi. L'orizzonte era una retta non lontana, e neppure vicina. Era soltanto lì, sembrava che per raggiungerla bastasse un miglio, e poi, tutt'a un tratto, pareva staccarsi e sedurli, per farsi bramare e rincorrere.

Louis poggiò le suole malconce sui supporti alla base della ringhiera e spianò le braccia, arretrando il capo, godendosi la folata salmastra che non tardò a sbuffargli in faccia; e Niall, appiccicato a lui, si teneva al corrimano e respirava il futuro, con tutto ciò che comportava.

Mentre si ritiravano, Louis porse la mano all'amico e lo aiutò a rimettersi correttamente in piedi. Fu allora che si girò e che lo vide.

Il bellissimo ragazzo ingessato in un elegante frac che cozzava con lo sguardo tetro, angosciato, smarrito nell'immensa distesa del mare, dove le speranze morivano e si reincarnavano in impavide disgrazie.

TITANIC || Larry StylinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora