Capitolo 1

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Davide
Le lasciai andare la mano e la guardai fuggire via, contro il tempo, contro se stessa.
«Com'è andata?», domandò Valerio appena entrato nella stanza.
«Tutto bene».
Non riuscivo a togliermi quello sciocco sorriso che mi aveva lasciato lei, Valerio se ne accorse, ma si limitò ad intuire in silenzio, soddisfatto.
Poco dopo sentimmo una voce provenire dal corridoio.
«Voglio vedere mio figlio!», disse una voce affannata e al quanto familiare.
Di scatto si aprì la porta, facendo sobbalzare Valerio che se ne stava sdraiato sul letto di fronte con il cellulare in mano, scorrendo video a tutto volume, torturando così le mie orecchie.
«Mamma!», esclamai alla vista della sua apparizione.
«Davide!».
Si catapultò verso di me con le spalline della borsa che le scivolavano lungo il braccio, tanto che la lanciò sul letto di fianco per liberarsi del peso, poi mi prese il viso, aveva messo tale forza e tanta fretta che sfregò le dita sui punti freschi che avevo appena sotto l'occhio.
«Valerio puoi lasciarci un attimo da soli?», domandò lei e Valerio acconsentì lasciando la stanza.
Mi guardò il viso con sguardo serio, scostò la mia gamba per potersi sedere, passò la sua mano sul mio braccio e iniziò:
«Davide...», marcò il mio nome e lasciò una lunga pausa; io distolsi lo sguardo e corrucciai la fronte.
«Gli hai dato tutta la somma?», aggiunse, fermò la sua mano sulla mia e me la strinse.
«Come fai a saperlo?», mormorai.
«É da un po' che parliamo»
«E non hai pensato di dirmelo?», urlai.
Le diventarono gli occhi lucidi, le labbra le tremavano, il sorriso scomparve e tutto tacque attorno a noi; il rumore della mia voce adirata aveva lasciato un vuoto di silenzio cupo.
«Pensavo ti volesse solo vedere, magari per fare pace... è pur sempre tuo padre», singhiozzò.
«Ti devi fare curare!».
Le urla mi provocarono delle dolorose fitte alle costole.
Cercò di avvicinarsi a me, io la osservai con gli occhi gonfi e viola, poggiai la testa sul cuscino e mi rigirai infuriato.
Sentii il peso del suo corpo lasciare il lettino, poi il tacchettio dei suoi passi ed infine la porta chiudersi.
Negli ultimi istanti prima che chiudessi le palpebre contai le goccioline di sangue che scendevano dalla sacca al filo della flebo.
Qualche giorno dopo mi dimisero dall'ospedale, fu Valerio ad accompagnarmi a casa, anche se avevo smesso di parlare anche con lui. Ad ogni respiro profondo sentivo il dolore attanagliarmi il torace, lasciandomi per qualche secondo senza fiato, in preda alle crisi di nervoso.
Valerio mi accompagnò fino in camera, in silenzio, mi sorreggevo con il braccio attorniato al suo collo, ogni passo era una straziante prova di dolore che mi faceva flettere il busto, e più mi piegavo più il male diventava acuto.
Stirarmi sul letto non era mai stato così bello, ogni mio muscolo si lasciò andare, la mia mente si rilassò donandomi quel dolce sollievo che ripagava lo sforzo fatto, e sarebbe stato tutto perfetto se non fosse che aveva lasciato il telefono sulla scrivania, significava sporgermi e fare altri sforzi che avrebbero richiesto troppo dolore che non avevo voglia di provare.
La porta si aprì lentamente, dalla fessura si sporse Gemma.«Come stai fratellino?», domandò con quel suo sguardo enigmatico.
Gemma, mia sorella maggiore, primogenita.
Opposti e testardi, c'è chi dice che sia la mia versione al femminile, che abbiamo la stessa testa dura e presunzione, forse era uno dei motivi per cui non andavamo d'accordo.
Quando aveva la mia età era peggio di me, usciva sempre e beveva, beveva così tanto al punto di dimenticarsi come si chiamava.
Parte del suo comportamento era dettato dall'infanzia distrutta per mano di mio padre, ma lei sembrava immune a tutto ciò che la circondava.
Ricordo che cercava di trascinarmi via con lei, via dai suoi ricordi e da ciò che aveva passato; lei faceva così: buttava anima e corpo su qualcosa così da non pensare al resto, come se si riparasse in una grotta durante l'apocalisse e alla fine di tutto ne usciva illesa.
Ricordo di quella volta in cui papà aveva rovesciato una bottiglia di alcol per terra...
Erano le 06:00 del mattino, tutto era calmo, non vi era un alito di vento, persino il cuore della terra aveva cessato di battere, gli alberi non si scuotevano, le foglie erano attaccate ai rami, il sole stava per sorgere, ma non c'erano neanche gli uccellini a cinguettare.
L'unico rumore a squarciare il silenzio fu il rombo dell'auto che accompagnò Gemma a casa.
Il mio sonno leggero fece si che vivessi anche quella vicenda, così mi alzai e corsi verso la porta chiusa della mia stanza per origliare, con l'orecchio ben attaccato al muro.
La chiave girò scorrevole all'interno della serratura, poi si sentirono due passi pesanti e la porta chiudersi.
«Cos'è successo?», la sentii domandare
«È caduta la vodka... sei stata tu?», borbottò mio padre.
Sapevo che stava per succedere qualcosa, così in silenzio, spinsi lentamente la porta e mi sedetti sul primo gradino delle scale che portavano al piano di sotto.
«No! Sono tornata adesso, non posso essere stata io», rispose con il tono di voce fermo e deciso.
«E invece io dico che sei stata tu. Pulisci!», ordinò, era ubriaco, già lo immaginavo seduto su una sedia con la pozzanghera di fronte e lui che lo contemplava in silenzio, con il sigaro tra le dita, le unghie ingiallite e il nauseabondo odore rilasciato nella medesima stanza.
«Col cazzo!».
Silenzio tombale, poi il forte rumore della sedia che sfregava contro il pavimento e un pugno sul tavolo che fece tremare le finestre.
«Che cazzo hai detto ragazzina?»
«Mi fai male!», singhiozzò Gemma.
Scesi gli scalini come se stessi correndo su una strada piana e di fronte a me vidi mia sorella con quei suoi occhioni miele da ragazzina tramutarsi in rosso sangue, il mascara che le colava sulla pelle sembrava tagliarla ed il caschetto biondo attorcigliato nel pugno di mio padre che le urlava in viso.
«E tu che vuoi?», domandò su di giri, con la voce incatarrata.
«L'ho versato io! Arrabbiati con me!», strillai.
Lasciò andare le piccole ciocche miele di Gemma e la spinse via così forte che ella si poggiò con le mani per terra per riparare dall'urto il suo bel faccino tondo.
E cadde, come cade una foglia in autunno.
«Pulite e non rompete il cazzo».
Mandò giù in un sorso tutto il bicchiere di vodka, poi, come era solito fare, asciugò le labbra con il filtro della sigaretta per poi bloccarla ed accenderla.
Salì le scale in preda alla sbornia, ma prima mi passò di fianco e mi toccò la spalla con la sua mano sporca e nera, piena di rughe malgrado la giovane età, stava invecchiando velocemente per colpa di tutte le sostanze che ingeriva, fumava o peggio...
Mi sbuffò il fumo in faccia e disse:
«Siete la mia più grande delusione. Tu fai la troia...», indicò Gemma «... e tu...», non concluse la frase.
Tossii e aspettai che arrivasse al piano di sopra, tenni la testa basta e gli occhi abbracciati al pavimento.
Andai incontro a mia sorella, con due dita asciugò le sue lacrime, poi mi prese delicatamente il volto e mi guardò negli occhi.
«Hey, non è successo niente», bisbigliò.
Mi prese la mano, mi portò a letto e mi rimboccò le coperte.
Tirò su il lenzuolo fresco che mi fece correre un brivido sul corpo, rimase con me, inginocchiata al mio fianco mentre mi accarezzava il ciuffo, ed io immobile con gli occhi vuoti, era tutto così maledettamente pesante da sopportare. Anche se non avevo versato una singola lacrima il mio cuore continuava a sbriciolarsi.
«Va tutto bene, sai com'è papà, dice certe cose, ma poi non le pensa davvero, beh certo... tu non lo sai, hai solo 7 anni... come puoi saperlo».
Sembrava che la sua bocca veniva tirata verso il basso dagli angoli, stava piangendo in silenzio, asciugava le lacrime che non smettevano di uscire, ma non si arrendeva, ogni gocciolina che nasceva veniva spezzata dal dorso della mano, le usciva sangue dal naso che cercava di ritirare su con dei sospiri rotti, poi lo tamponava appena con un fazzoletto. Io la osservavo, quella sua forza nell' auto-convinzione, cercando di portare anche me in salvo. La osservavo medicarsi il cuore spezzato, si vedeva da come lo guardava che aveva perso qualcuno che aveva conosciuto, nello sguardo di Gemma c'era un papà che abbracciava sua figlia, che la amava e non quella figura che le aveva appena strappato i capelli.
Io avevo conosciuto bene solo la parte cattiva che era diventato, avevo ben chiaro chi fosse mio padre, era quel mostro che dipingevo, quel mostro seduto sulla sedia con la bottiglia vuota ed il posacenere colmo, quell'uomo dalla barba folta e nera, gli occhi di ghiaccio ed un buco nel petto al posto del cuore.
Non le risposi, l'odio che provavo era già irreversibile e lei l'aveva capito, me lo leggeva negli occhi, quegli occhi che erano uguali ai suoi, con la differenza che dentro i miei oltre all'amarezza non c'era nient'altro.
Mi afferrò la mano, la strinse forte e a bassa voce disse:
«Un giorno le cose si sistemeranno».
Mi prese il viso dal mento, lo girò verso di sé e mi sorrise con le lacrime che imperterrite le bagnavo le guance rosse.
«Ora dormi».
Guardai quell'esile corpo andare via, sulle sue gambe e in punta di piedi, per riparare gli errori di nostro padre, sgomitando per raggiungere il giorno tanto atteso.

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