Stati Uniti - Aprile 2008

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Rabbrividii e feci un giro su me stesso. Era troppo freddo per andarsene in giro a quell'ora con una semplice t-shirt, ma non avevo nessuna voglia di tornarmene a casa; avrei dovuto sorbirmi la solita e inutile ansia di mia madre e il quotidiano battibecco delle sette e mezzo col mio patrigno, un tipo insignificante dalla mascella ferrea che pretende di controllarmi la vita solo perché mia madre, in un attacco di solitudine, ha deciso di sposarselo, un anno e mezzo fa.
Smisi di dondolare il piede sullo skate e mi diedi una lieve spinta in avanti in modo che la discesa del vialetto mi facesse da trampolino. Ovviamente era vietato andare in skate nel parco, ma a quell'ora non c'era quasi nessuno. Raggiunsi in velocità il muretto vicino al fiume, e saltai giù guardandomi intorno. I ragazzi della banda, in genere, si trovavano lì.
Quella sera non c'erano. Non c'era nessuno.
Non c'era nemmeno Jenny.
Mi seccai; ero andato lì quai esclusivamente per vedere lei. Almeno vederla... avevo pensato che mi avrebbe tirato su di morale. Ma evidentemente il mio morale doveva stare dove di solito stava, cioè sotto i tacchi. Saltai sul muretto e alzai gli occhi sugli alberi del parco, mentre mi sistemavo sulle pietre coperte di graffiti.
Il parco perforava la città come il foro di una pallottola dagli orli abbrustoliti; gli alberi ancora spogli ondeggiavano al venticello fresco e tutto sembrava avvolto da una irreale atmosfera di tranquillità. Mi resi conto improvvisamente che era il posto più avvilente della città, sporco quasi come la strada, triste e opaco, un'oasi che tentava di resistere all'assalto del cemento, da cui si levavano vescichette di ossigeno che cercavano di incastrarsi come bolle di sapone nella densa aria grigia. Mi voltai verso il fiume, che scorreva sempre uguale a se stesso oltre la ringhiera di ferro, e vidi un grosso ratto che usciva da un cespuglio e si avventurava fino all'argine, le zampe rosee, i corpo grosso e peloso quasi come quello di un gatto. Forse quel topo ne aveva persino mangiati, di gatti. Gli lanciai un sasso, tanto per evitare che pensasse di poter ingoiare anche me. Ma non facevo paura nemmeno a un dannato topo: che se ne restò lì, fissandomi malignamente.
Mi sentivo ribollire di rabbia e delusione. Per tutto.
I clacson continuavano a suonare sulla Principal e un tassista gridò uno dei soliti accidenti dal finestrino, mentre una sirena della polizia suonò in lontananza. Era la mia città. Tutto poerfettamente in regola così com'era.
Anch'io ero perfettamente in regola con la mia città. Sempre di cattivo umore e spontaneamente maleducato; a scuola la strizzacervalli di turno aveva detto che ero soltanto un tipo difficile, ma non senza speranza. Non ancora, almeno. Così, ai tempi in cui successe tutto, lavoravo alacremente per far parte dei senza alcuna speranza. Mi pareva che fosse un gruppo più interessante e variegato di quello dei noiosi secchioni tutti casa e famiglia o dei brufolosi timidi e imbranati.
D'altra parte avevo sempre pensato di dover fare qualcosa se volevo che la mia vita cambiasse in qualche modo; nel bene o nel male, non mi importava un fico secco, in quel momento. Ma la verità era che, qualunque cosa facessi, non succedeva nulla di nulla.
Nulla camniava. “Squallido” era di sicuro l'aggettivo che mi descriveva meglio. Sì, squallido.
Non mi aspettavo cambiamenti nemmeno quella sera: anzi, mentre fissavo l'acqua nerastra del fiume, mi dicevo che ancora una volta il copione si sarebbe allegramente ripetuto.
Maledetto anniversario.
Perché ogni anno, nel periodo in cui mio padre era scomparso in mare, mi sentivo più strano del solito? Avrei preferito dimenticarmene.
Per sempre.
Automaticamente infilai la mano in tasca e tirai fuori le chiavi di casa; all'altro capo del portachiavi c'era il suo anello, quello che il nonno mi aveva dato quando papà era sparito. Avevo sempre odiato quell'anello, avrei preferito avere mio padre e non quel “coso”...Lo staccai frettolosamente per scaraventarlo nell'acqua del fiume. Per quello che ne sapevo doveva essere abbastanza densa da inghiottirlo e non riportarlo a galla; magari l'avrebbe corroso all'istante.
Ma mi fermai a metà del gesto, stringendo il pugno quai fino a farlo sanguinare.

– Ehi! Che ci fai qui, Kasalevic? – domandò una voce che conoscevo bene.
Era lei; Jenny. Come se avesse sentito che avevo bisogno di vederla (che mi sarei accontentato anche solo di vederla...lo sapevo che era la ragazza di quel megalomane di Jo!), era arrivata al trotto. Mi strinsi nelle spalle, incapace di rispondere.
Non potevo dirle "ti aspettavo" perché avrebbe capito, non era stupida, Jenny. Ero cotto di lei da un pezzo.

La Scacchiera NeraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora